Chiacchierata con la combo milanese, che si sta facendo notare grazie ad un nu jazz contaminato e frizzante al punto giusto.
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_di Mattia Nesto
A proposito di bella stagione: cosa c’è di meglio, magari verso fine maggio, di mettersi a mangiare fuori la sera, con una buona bottiglia di vino bianco e magari un succulente piatto di pesce? Beh quale colonna sonora migliore che le canzoni dei Noor, una band giovane e, per l’appunto, fresca fresca, di Milano. Abbiamo raggiunto i componenti Valentina Pentesilea, John Bramley, Francesco Marchetti e Sebastiano Ruggeri.
Per la serie “viva l’originalità”: come vi siete conosciuti e perché avete deciso di mettere in piedi un gruppo?
Ci siamo conosciuti grazie al teatro e a Lucio Dalla. Francesco ed io abbiamo lavorato insieme per uno spettacolo itinerante su Milano qualche anno fa. Lui musicava lo show. Io interpretavo una scalmanata futurista. Una sera, mentre gli strappavo un passaggio in macchina, è partita La sera dei miracoli. Sembrava che qualcuno avesse premuto il tasto “play” su entrambi. Ci siamo guardati e abbiamo detto: perché non proviamo a creare qualcosa di bello. Insieme. Abbiamo scritto Parentesi. La nostra prima canzone. Con lei abbiamo conquistato Johnny. E il patto della creazione di gruppo si è allargato, fino a coinvolgere Seba e il suo irresistibile gusto del ritmo. Una specie di puzzle: ogni tassello al posto giusto, con calma. E con Lucio.
Venite tutti da percorsi musicali/artistici simili oppure c’è grande diversità di percorsi tra di voi?
I ragazzi provengono tutti da studi musicali ben precisi. Li lega la frequentazione della Scuola Civica di Jazz di Milano. E molte collaborazioni ad altri progetti musicali. In realtà l’unica anomalìa sono io. Nonostante sia stata legata fin da piccolissima alla scrittura e alla musica, il mio percorso artistico è cominciato col teatro e la recitazione. Ma mi piace fare casino, pasticciare, mettere nel calderone tutti gli ingredienti e vedere che manicaretto ne viene fuori. E’ così che la musica è tornata a bussare alla mia porta e mi ha detto: dove sta scritto che non si possa unire tutto?
Come mai avete deciso di puntare su un genere di musica, ovvero una forma di jazz catchy il giusto che, senza ombra di dubbio, non è tra le cose più di moda in questo periodo? Forse proprio per questo, per potervi distinguere in mezzo alla grande, grandissima proposta del momento?
Non la considererei una vera e propria decisione. E’ un punto di partenza. E’ come un dialogo tra persone che parlano lingue differenti. A forza di ascoltarsi si insegnano l’un l’altra termini e modi di dire. Fino a trovare un linguaggio proprio. Un codice tutto loro per comprendersi davvero. Per poi provare a trasferirlo al resto del mondo. Il distinguersi sta anche in questo: provare a far sentire e preservare autentica la propria voce, pur mantenendo sempre un orecchio teso a quella degli altri. Ovvio che poi gli studi influiscono parecchio: l’influsso del jazz c’è ma è molto filtrato. In generale, c’è solo una grandissima voglia di scrivere belle canzoni. E raggiungere più orecchie possibili.
Avete scritto nel comunicato stampa “Noor è cinema in bianco e nero che lavora sodo per diventare a colori”: mi ha molto affascinato questa frase. Posso chiedervi qualche spiegazione in merito?
E’ stata una suggestione che mi è venuta una notte, mentre cercavo le parole giuste per definire quello che siamo. E’ complesso dare delle definizioni. Soprattutto quando si tratta di qualcosa che ha un’identità ancora tutta da sviluppare. Stai crescendo e non sai benissimo cosa sei né tantomeno cosa diventerai. Un po’ come è successo al cinema. E’ nato in bianco e nero ma c’erano già degli studi per provare a trasferire l’immagine a colori, come li vediamo nella realtà. Ci piace vederci con lo stesso spirito di evoluzione. Lo stesso impegno nella ricerca. Che poi è anche legato alla luce, che è uno dei significati del nostro nome.
Al momento avete rilasciato un ep digitale formato da tre tracce: avete in programma di registrare qualcosa di nuovo oppure al momento basta così?
Non nell’immediato futuro. L’EP ci è servito per mettere un punto su una prima fase del gruppo. Ascoltare i nostri suoni dall’esterno. Abbiamo molti pezzi tutti nostri. Ma il calderone deve ancora bollire parecchio prima che sia pronto un piatto più sostanzioso!
Come si svolge un vostro concerto tipo o meglio qual è la sensazione che maggiormente piacerebbe trasmettere a chi vi ascolta?
Di base si parte dal contesto in cui suoniamo e dagli occhi che abbiamo davanti. Vogliamo divertire, coinvolgere. Vogliamo che il pubblico interagisca come interlocutore attivo. Le nostre canzoni sono delle storie. Delle battute di un dialogo serrato. Cercano visi a cui rivolgersi. Occhi che si lascino trasportare dalla conversazione.
Quali sono i gruppi o gli artisti che seguite di più in questo periodo?
Siamo onnivori. Non abbiamo intolleranze specifiche, per il momento. Poi c’è sempre la soggettività di ognuno di noi. Ma cerchiamo di formarci a vicenda. Abbiamo cominciato a comporre un ascolto collettivo che ci ispiri. Proprio in questi giorni sto creando una playlist in condivisione piena di roba davvero buona. Dalle atmosfere dei Beach House alle folli esplosioni dei Flaming Lips, passando dal potere delle parole di Ivano fossati alle trascinanti storie di Regina Spektor. Suggerimenti arrivano anche dalle persone che ci ascoltano e ci danno degli ottimi spunti creativi a seconda delle suggestioni che gli attiviamo. Alla fine ciò che affascina è sempre il suono, innanzitutto: se è particolare ti attrae a sé.
Un po’ alla maniera del sommo Marzullo: tra dieci anni dove/come vi vedete?
Davanti una buona birra a riparlare con te di questa intervista. La prima, in effetti. E riderne molto. Moltissimo.