[INTERVISTA] Ricomporre i frammenti: il teatro decomposto di Matei Vişniec

Chiacchierata con Girolamo Lucania, regista di Parsec Teatro e direttore artistico di Cubo Teatro, che ha portato al Cap10100 Teatro decomposto o L’uomo pattumiera di Matei Vişniec, in occasione del Torino Fringe Festival.

 

_di Silvia Ferrannini
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Posta a prefazione della raccolta Teatro decomposto o L’uomo pattumiera (1992) di Matei Vişniec (romeno di Rădăuţi naturalizzato francese) c’è l’esplosione di uno specchio, la proliferazione di frammenti, un oggetto “un tempo in perfetto stato” non ricostruibile in quanto nessuno sa come fosse prima. È immagine d’apertura a un’estetica della ricerca, o forse a un’esplorazione creativa i cui strumenti di scandaglio sono tasselli teatrali sempre pronti a diventare altro: sono forma e sostanza di una decomposizione non più ricomponibile perché gli esiti possono (e devono) essere tanti, diversi, potenzialmente senza fine. Non è facile per l’uomo, sempre solo, sempre spazzatura tra il consumismo imperante, raccogliere i pezzi e ritrovare il linguaggio perduto.
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E poi c’è l’attore, un po’ performer un po’ anch’egli spettatore, che dà voce e corpo a questa grande (ma non così caotica come si crede) pluralità.
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Girolamo Lucania porta alla ribalta i testi di Vişniec presso il Cap10100, in occasione del Torino Fringe Festival: qui di seguito ce li racconta.
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Vişniec dice “ questi testi sono i pezzi di uno specchio rotto. C’è stato, un tempo, l’oggetto in perfetto stato [….] C’è stata, non si sa quando, né perché, l’esplosione”. Bastano queste poche righe a denunciare una vocazione al frammento peculiare della poetica di Vişniec. Sapresti spiegarcela meglio?
 
Per comprendere al meglio la poetica del Teatro Decomposto è necessaria una piccola biografia di Visniec. Si trasferisce nel 1987 dalla Romania in Francia. E lì comprende come il modello consumistico sia effettivamente riuscito a prendere il sopravvento su scala mondiale. Così nasce la poetica dell'”Uomo Pattumiera”, che emblematicamente viene descritta in questo testo. La frammentarietà di quest’opera è una conseguenza di riflessioni legate all’osservazione del mondo occidentale: una libertà finta, che genera solitudini, riti individuali e non più collettivi, e un consumo sfrenato di oggetti e cose, un atteggiamento divorante materia e spirito. In questo “vivere” l’uomo si ritrova spaesato, solo in una città affollata. Allora nasce il linguaggio del Teatro Decomposto, che di fatto “decompone” anche la materia teatrale.
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In cosa si tramutano i testi di Vişniec a livello di organizzazione spaziale? A livello temporale? Sono stati necessari tagli, interventi, adattamenti?
 
Il linguaggio del testo e la sua struttura impongono una riflessione ontologica sul teatro: a livello prossemico, a livello di rapporto spazio-tempo, e sul rapporto fra messa in scena e pubblico. Quest’ultimo deve essere integrato all’interno della rappresentazione, senza avere un unico punto di riferimento né spaziale, né temporale. Il pubblico è costretto ad attivare udito, sguardo e immaginazione spostando costantemente l’attenzione da un punto a un altro dello spazio. La cerimonia che ne viene fuori è frammentata, eppure unitaria. Per poter dare unitarietà abbiamo sfruttato la metafora del Cerchio, unico monologo che abbiamo frammentato per dare struttura al lavoro. In questa prima fase non abbiamo effettuato tagli, ma deciso di variare la struttura e l’ordine dei brani di volta in volta, a rappresentare il fallimento di una rappresentazione frammentaria: quello di non poter avere unità narrativa, ma semmai “d’atmosfera”. (in questo senso, a esempio, nella replica che avete visto voi abbiamo tolto proprio il monologo del Cerchio e rimesso il giorno dopo e i giorni a seguire).

«Lo spettatore partecipa a un rito, composto o ri-composto da altri riti. L’obiettivo è soprattutto questo: immergere il pubblico all’interno della rappresentazione, farne metafora del linguaggio del cerchio. Condividere»

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Matei Vişniec
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Parliamo degli attori. Come hanno recepito e rielaborato sulla scena le idee di Visniec? La “confidenza” con il testo si è instaurata subito o è stata più graduale e meditata?
 
La materia Visniechiana è complessa. Abbiamo lavorato su due fronti: cercare il nucleo emotivo dei singoli brani e cercare la rappresentazione atmosferica, unitaria, della cerimonia. Questo rapporto ha un equilibrio delicato che si genera con il tempo. Il nostro approccio è processuale, quindi in questa prima fase abbiamo lavorato nella direzione di trovare un equilibrio fra quei due aspetti. In questo senso il replicare di seguito ha portato a una comprensione e una consapevolezza sempre maggiore. La parola di Visniec fornisce costanti stimoli, tutt’ora in ricerca. Nella prossima fase lavoreremo sulla generazione casuale della struttura in scena, dopodiché approfondiremo ancora di più questo elemento: ognuno degli attori saprà tutti i testi. L’obiettivo finale, che è anche materia di ricerca della Compagnia, è la creazione di un mondo sistemico nel quale gli attori possano “vivere” secondo regole che consentano libertà d’azione, di vita.
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Cosa ti aspetti dal pubblico? O meglio, come vorresti che il pubblico rispondesse allo spettacolo?
 
Lo spettatore partecipa a un rito, composto o ri-composto da altri riti. L’obiettivo è soprattutto questo: immergere il pubblico all’interno della rappresentazione, farne metafora del linguaggio del cerchio. Condividere. Soprattutto quando questo riesce, si crea un’atmosfera potente, in cui lo sguardo degli spettatori ondeggia, si muove da un punto all’altro generando punti di attenzione diversa, e osservando altresì lo sguardo di parte del pubblico che sta di fronte, ai lati. Il pubblico così può avere la sensazione di “far parte” e non essere passivo, deve muovere gli sguardi, a volte addirittura il corpo, generare empatie diverse, anche solo mettersi in ascolto; in generale diventa elemento imprescindibile per la rappresentazione stessa. In questo ci si ricollega alla prima domanda: Visniec impone un ragionamento sul teatro, la prossemica e il rapporto rappresentazione-spettatore.
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Se dovessi paragonare Teatro decomposto o L’uomo pattumiera a un’altra forma od opera d’arte (letteraria, pittorea, scultorea, cinematografica, architettonica…) quale sceglieresti?
 
Domanda non semplice, se ne potrebbe scrivere molto! Sicuramente e fin troppo ovvi sono i riferimenti dell’opera kafkiana. Ma diciamo questo: è come se Visniec avesse dato allo scultore un blocco di marmo frammentato. Ognuno dei frammenti ha una sua forma esteriore. Compito dello scultore è comprenderne l’estetica interiore.
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Parlaci della tua storia, e del Parsec. Come siete nati? Quali sono le vostre ambizioni?
 
Parsec nasce come compagnia stabile del Cubo Teatro, qui a Torino. Il Cubo intende diventare nei prossimi anni anche un centro di produzione e distribuzione, oltre che restare un teatro di programmazione. Tutti noi siamo diplomati in accademia, soprattutto la Paolo Grassi di Milano, dove ci siamo conosciuti, ma abbiamo anche elementi di formazione Stabile di Torino. Parsec è alla costante ricerca di un linguaggio singolare, proprio, e l’ambizione è trovarlo ed esplorarlo fino in fondo. Un linguaggio che si concentri sulla creazione e non tanto su uno stile o sulla prossemica o sul rapporto col pubblico: questi vanno sondati ed esplorati di volta in volta a seconda dell’opera, perché sono l’opera stessa.
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Prova a dirci tre aggettivi, oltre a decomposto, che definiscano il vostro lavoro per questo spettacolo.
 
(Quanto tempo ho per pensarci?) Al brucio: cerimoniale, carnale, emotivo.