Come abitare la città (ri)innovando gli spazi e gli strumenti dell’architettura? Ne parliamo in una intervista-fiume con Davide Tommaso Ferrando, critico di architettura indipendente e curatore, in occasione della manifestazione Architettura in Città 2017.
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_di Claudia Ferrannini
“La città come casa” prevede un ricco programma di eventi messo a punto dalla Fondazione per l’Architettura e con il sostegno numerosi partner culturali: nella sede centrale del festival sono previste rassegne cinematografiche, uno spazio di lettura, lezioni con grandi nomi dell’architettura ed incontri con esperti esterni.
Per l’occasione abbiamo intervistato uno di loro, Davide Tommaso Ferrando: classe 1980, laureato al Politecnico di Torino e con un Phd in Architecture and Building Design, il suo lavoro indaga le teorie di architettura contemporanea e l’impatto che essa ha nella cultura visiva e nei social media.
Critico di architettura indipendente e curatore, Ferrando dal 2009 e anche editor in chief della webzine di architettura 011 più e dal 2010 anche presidente dell’associazione culturale Zeroundicipiu, attraverso la quale organizza eventi, workshop e iniziative in Italia e Europa. Attualmente si trova ad Innsbruck (AT) dove lavora come ricercatore.
CF: Architettura in Città sta per cominciare e quest’anno si tuffa in un tema molto vasto: la città come casa e l’abitare sono questioni sulle quali è già stato ampiamente discusso. Quali sono allora le novità per questa edizione?
DTF: È vero che il tema di quest’anno è molto vasto ma c’è una logica precisa, legata alle dinamiche per definire il tema di un festival. Quest’anno la Fondazione per l’Architettura ha deciso di invitare due curatori esterni per redigere il programma dei temi e contenuti del Festival assieme a un tavolo scientifico che sta lavorando su questo da febbraio. Una delle maggiori novità è che il Festival diventerà biennale, una dimensione sensata per questioni di capacità di raccogliere più contributi interessanti in più tempo. Gli anni scorsi infatti venivano proposti molti temi infinitamente più vasti del tema di quest’anno, ed era organizzato come un clame e mancante di una linea curatoriale. Io e Nina Bassoli siamo stati invitati ad aggiungerci a questo tavolo prima per indirizzare tema, poi per definire le attività principali.
Il festival ha una parte di eventi curata da noi e di cui conosciamo la qualità e i partecipanti, per poter controllare gli eventi stessi. Va ad aggiungersi che durante queste giornate ci saranno molti altri eventi non promossi dall’Ordine degli Architetti o dalla Fondazione rimanendo comunque un evento collettivo.
«Per quanto riguarda il discorso sull’abitare e il discorso sulla città se presi separatamente non si va da nessuna parte»
La linea di quest’anno vuole evitare di toccare in maniera superficiale tanti argomenti per approfondire in una certa direzione: se tutti i contributi parlano di una certa qual cosa, è possibile fornire un’infarinatura di conoscenza che riguarda da vicino il tema dell’abitare in città. Il mio lavoro consiste quindi nel mettere in relazione elementi tra di loro e dare un indirizzo, allo stesso tempo lasciare maglie larghe per coinvolgere tante discipline e per entrare in contatto con tutta la cittadinanza non addetta ai lavori. Di fatto mi sono ritrovato in una posizione in cui dovevo trovare e non trovare un tema!
Per quanto riguarda il discorso sull’abitare e il discorso sulla città se presi separatamente non si va da nessuna parte. Ma se sono messi in relazione il campo si restringe: cosa vuol dire abitare la città? Cosa vuol dire abitare in città? Cosa significa abitare oggi in sistema denso di prossimità e soggetto a movimenti di speculazione? Tramite queste domande è possibile costruire una rete di ragionamenti che possono diventare eventi e abbracciare il maggior numero di contributi possibili. Per stimolare attori piuttosto che formare un pubblico.
CF: Le domande proposte dal Festival toccano tematiche importanti e vaste anche solo prese da sole. Certamente questa parte molto discorsiva metterà alla prova il Festival.
DTF: Le domande a cui ti riferisci sono domande retoriche formulate quando è stato presentato il tema del Festival e in vista degli incontri con i partner storici della Fondazione. Tali interrogativi servivano più a stimolare ragionamenti da parte dei partners: con l’obiettivo di dare aiuto, abbiamo consapevolmente formulato domande che generassero argomenti. A queste cerchiamo di rispondere in parte con i nostri eventi, come ad esempio la mostra che cerca di occuparsi di questi temi, ma anche tramite i quattro incontri e le quattro serate del festival al Q35.
In più le domande non sempre sono fatte perché ci sia una risposta, piuttosto per destare riflessioni! A tal proposito abbiamo optato per domande secche e che fanno sorgere dubbi, ma che fungono da strumento per entrare in contatto con i partner in modo più efficace. Diversamente l’anno scorso, quando tutto ciò che veniva proposto finiva nel programma del festival, quest’anno abbiamo proposto una selezione degli eventi che rientrassero nelle tematiche identificate da noi, ovvero tutti eventi fattibili. Tutti gli altri sono finiti in quello che è stato chiamato il Fuorifestival, un modo per rinforzare la nostra convinzione che è utile ragionare attorno a un tema, e per essere più inclusivi che esclusivi.
«La sfida sta nel riuscire a entrare in una fetta di mercato che non sia necessariamente quella dell’architettura costruita “classica”, ma che permetta comunque a chi è abituato a ragionare in termini spaziali di potersi mettere in gioco»
CF– Un importante interrogativo che guida AIC 2017 riguarda il ruolo dell’architetto nella società contemporanea, in termini di strumenti e teorie che esso e chiamato ad avere per poter agire.
Tu che sei critico di architettura ben saprai che questa domanda un architetto se la ripete ogni giorno, in particolare adesso che c’e una crisi nel settore: moltissimi architetti ma mercato delle costruzioni stagnante. Hai qualche consiglio pratico da rivolgere a questa nuova generazione di addetti ai lavori?
DTF: Questo è un tema che a me sta molto a cuore ed è anche una delle cose che ricerco nei miei studi sull’architettura. Per rispondere a questa domanda posso fornirti da un lato mia opinione personale, dall’altro alcuni esempi che esistono non necessariamente nel territorio nazionale, ma che spiegano in che direzione si sta evolvendo la professione.
La mia personale opinione è che è vero che agli architetti nel loro periodo di formazione viene data un’infarinatura di molte discipline. Questo perché l’architettura stessa ha a che fare con tante discipline ed è difficile trovarne una che non possa essere fatta rientrare all’interno di un discorso di pratica architettonica. Ciò fa si che gli architetti siano portati a reinventarsi, e questo è un aspetto positivo. Quello che certamente è successo a partire dal 2008, l’anno della crisi generata proprio dallo scoppio della bolla immobiliare, è che la figura dell’architetto ha iniziato ad essere marginale in termini quantitativi. Ciò vale a dire che l’architetto specializzato nella costruzione di edifici ha cominciato ad avere un po’ di problemi per due motivi principalmente:
1) Primo perché non si costruisce più non essendoci soldi per costruire: quindi l’architetto non lavora più. Per esempio in Spagna, dove ho vissuto un po’ di anni e dove la crisi immobiliare è stata devastante, il fenomeno è stato davvero pesante e difficile ed ha coinvolto tantissimi strati della professione, non solo architetti ma anche l’indotto dell’industria delle costruzioni è stato chiaramente colpito. Questo per dire che reinventarsi fa parte del codice genetico degli architetti, il che è un’altra buona notizia.
Riguardo esempi virtuosi invece posso fare riferimento a tutte quelle realtà evidenti, come studi giovani formati da persone intelligenti, colte e che hanno voglia di fare le cose.
Non posso certo parlare per la maggior parte della gente che ha la laurea in architettura perché quelli ovviamente non li conosco. A Milano ci Fosbury Architecture, i Raumplan, i Parasite a Timisoara…
Credo quindi sia importante da un lato reinventarsi perché l’architetto può fare altro, essendo abituato ad avere a che fare con altre discipline. C’è anche chi da architetto o studio di architettura inizia a fare installazioni, curatele, e ancora alcuni che diventano editori, scrittori, oppure mettono in piedi cicli di conferenze, diventano artisti o fanno opere temporanee.
La sfida quindi sta nel riuscire a entrare in una fetta di mercato che non sia necessariamente quella dell’architettura costruita “classica”, ma che permetta comunque a chi è abituato a ragionare in termini spaziali di potersi mettere in gioco, di “fare altro”, e che prima o poi venga riconosciuto come architettura. Per riempire di architettonicità tutte le cose che si possono fare.
2) L’altra questione tocca invece gli strumenti dell’architettura e come questi possano essere reinventati. Se vogliamo rimanere attaccati all’idea della trasformazione del territorio, del paesaggio, della costruzione etc., allora cosa può fare oggi l’architetto dopo un periodo in cui si è costruito troppo, più che a sufficienza per le prossime generazioni e non essendoci più soldi per costruire? Da un lato se sei nel giro giusto e vivi nella città giusta continui a fare l’architetto, come a Londra, New York o Dubai: tutte città dove si è spostata la figura dell’architetto, ovvero in quei posti che danno la possibilità di mantenere questa figura classica, anche in Italia.
Ciò che secondo me è interessante oggi è proprio questo: è possibile che l’architetto debba trovare nuovi strumenti progettuali per esistere in questo periodo difficile? E allora quali possono mettere in discussione l’idea stessa di architettura che noi abbiamo? Io credo di si. Lo fanno ad esempio i Lacaton & Vassal a Parigi, i Recetas Urbanas a Siviglia, i Rotor a Bruxelles…sono tutti esempi di studi che stanno cambiando gli strumenti del progettare, mettendo in discussione il rapporto tra spazio e funzione. Se lo spazio viene pensato come capace di ospitare qualsiasi funzione, allora forse la vitalità urbana non necessita di grandi investimenti.
D’altra parte gli spazi sono tutti intorno a noi e se siamo capaci di riconoscere degli spazi abbandonati, vuoti, senza avere l’esigenza del muro perfettamente intonacato, allora sappiamo apprezzare anche un’estetica, come quella della rovina, che è diventata ormai abbastanza mainstream… Probabilmente puntare all’attivazione sociale che è una delle grandi cose che fa l’architettura, per trovare sostegno economico in maniera diversa. Su questo punto in particolare un esempio è lo studio belga Rotor che decostruisce edifici esistenti per dare materiale al mercato dell’edilizia di seconda mano, spendendo meno e consumando meno risorse.
«A Torino come in altre città europee si è costruito più del necessario per cui ci sono spazi vuoti»
CF: Dopo questa panoramica Europea, quali possono essere secondo te le prospettive di cambiamento per Torino più fertili, che possano indirizzare la pratica architettonica per il futuro?
DTF: Occorre fare una premessa sul modello economico e politico in cui si colloca il contesto di Torino. Torino è una città che non cresce, non è economicamente promettente per il momento, anche se negli anni passati ha provato a reinventarsi come “città del turismo” e della “formazione universitaria”. Questi tentativi passati non hanno fatto fare il salto a Torino, che rimane una città depressa economicamente, con moltissimi debiti dovuti agli investimenti fatti nelle opere pubbliche quando il pubblico soldi non ne ha, come è successo per esempio con gli investimenti nel settore residenziale (quando tutto sommato la popolazione non cresce), e questo spiega il suo valore immobiliare piuttosto basso. A Torino come in altre città europee si è costruito più del necessario per cui ci sono spazi vuoti.
Per ripartire secondo me la cosa più sensata da fare al momento è occupare gli spazi vuoti: edifici finiti e attrezzati ma anche no, oppure quelli già costruiti che hanno spazi a disposizione. Questi potrebbero essere occupati prima di costruire di nuovo. Per fare questo in realtà occorre un passo in più che precede l’architettura e fa riferimento alla normativa: questa dovrebbe essere più elastica e permissiva, che dia la possibilità di mettere in discussione alcuni limiti dati dal regolamento edilizio e dal Piano Regolatore della città. Con certe divisioni funzionali molto nette, secondo le quali una zona industriale non può essere residenziale, o un edificio per uffici non può essere riconvertito in industriale e viceversa, il cambiamento non è incentivato ma bloccato da un’abbondanza di spazi disponibili ma non convertibili.
C’è bisogno quindi di una flessibilità di partenza che permetta al tessuto minuto della città di costruire in maniera spontanea e dal basso nuovi modelli di occupazione dello spazio, basandosi sia sul tessuto normativo che su nuove tipologie di convenzioni. Guardando nuovamente all’Europa, un esempio è ciò che succede in Olanda: alcuni architetti hanno messo in piedi contratti di affitto con proprietari di fabbricati industriali dismessi a canoni d’affitto mensili molto bassi. Questo processo ha permesso a giovani creativi, architetti, designer, artisti, ovvero tutti coloro che hanno poco potere contrattuale e poco potere economico, ma che hanno bisogno di spazi per poter cominciare a riprodursi, di ottenere spazio in cambio di maggiore flessibilità. Io proprietario ti affitto a un prezzo ridicolo il mio immobile, altrimenti vuoto e depurato dell’interesse economico, ma se un giorno decido di venderlo e trasformarlo in un ufficio fighissimo tu hai un mese di tempo per andartene. Questi giovani accettano queste condizioni che sono certamente più difficili delle classiche, ma in cambio ottengono spazi colonizzabili rapidamente e implementabili nel momento in cui si entra nello spazio e si inizia ad usarlo, anche se questo manca delle predisposizioni giuste.
Questo sistema costruisce un nuovo tipo di città perché rende possibile occupare diversamente gli spazi spendendo poco e più in fretta. Allora questa è una cosa che mi piacerebbe molto vedere sviluppata anche in Italia e in particolare a Torino dove di spazi a disposizione ne abbiamo tantissimi! Ma dal momento che questo tipo di occupazione non risponde al tipi di investimenti immobiliari, perché non attiva grandi investimenti e guadagni, non c’è interesse a modificare il sistema. Al di là del problema politico e normativo c’è anche tutta una questione non secondaria di adeguamento tecnico, poiché stiamo parlando di attività che non producono grandi ingressi di capitale economico per i soliti grandi operatori del settore. L’obiettivo degli investitori dovrebbe essere redistribuire a livello del privato e del cittadino un poco di energia e di imprenditorialità, ma stiamo parlando di un gruppo che non si identifica con il precariato, che non è una classe sociale ma un insieme eterogeneo di individui. Non essendoci un “sindacato dei precari” il potere politico contrattuale è praticamente inesistente, e per ottenerlo non so proprio dirti come si possa fare!
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