I medicamenta di Molière ai mali del secolo: il suo o il nostro?
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_di Valentina De Carlo
Quando siamo malati, nessuno capisce come stiamo, né può davvero farlo. E quando il male è immaginario? Si è senz’altro pazzi. Nessun dubbio. Musica ipnotica e litania di parole inquietanti ci proiettano subito in una dimensione alterata della realtà, dove vagano umani vestiti da una tunica nera, che indossano le orribili maschere a becco d’uccello dei medici della peste, mentre preparano gigantesche siringhe ed enormi clisteri, cantando la loro cantilena estenuante. Ci accoglie così l’Argante de Il Malato immaginario per la regia di Ugo Chiti, messo in scena da Arca Azzura Teatro e portato a Torino dal Teatro Stabile. Un Argante che dorme tranquillo, beato nel suo sonno senza sogni, cullato dai fantomatici medici, fiducioso nella loro scienza.
Ma il suo risveglio è traumatico: nessun sintomo di miglioramento, solo peggioramento, estenuante caduta verso il basso, verso il deterioramento, verso la morte del corpo e quindi l’invisibilità. Questa forse è la vera paura del protagonista, essere invisibile alle vite degli altri, essere messo da parte. Dunque la quotidiana elencazione dei mali che lo affliggono e delle sue viscere, che per essere prese in considerazione hanno bisogno di essere ammalate, è un infinito richiamo alle persone che lo circondano. Un’infinito gridare sono qui e un’infinita indifferenza in risposta. Ipocondria? O forse un estremo bisogno dell’altro, di relazioni, di umanità? Quella non presente nell’asettica tenuta dei medici, nell’omologazione dei rimedi, che non guardano al malato, ma al male, anche in un malato dove il male è nel cuore, ma non quello anatomico. Un cuore inasprito dalla vita, reso arido dai dubbi e dalla solitudine. Un cuore spostato, come lo percepisce Argante, che batte ad un unico ritmo: il suo. Ed è perciò incompreso, folle, ingenuo, malato, debole. Per tutti quelli che gli stanno attorno il vecchio padrone di casa non è altro che questo: un idiota che si crede malato e che si fa raggirare da medici e farmacisti senza scrupoli, che hanno trovato in lui la loro gallina dalle uova d’oro, e da una seconda moglie che lo vuole morto.
Ultimissima commedia di Molière, che muore mentre recita in una replica nel 1673, Le Malade Imaginaire é la resa dei conti tra l’uomo e la sua caducità, tra i suoi desideri e le sue convenzioni, lo scontro tra la mente e il corpo, l’ultimo atto della scienza e dei mali incurabili. Se immaginari, ancor meglio.
Cosa si nasconde dietro paroloni incomprensibili, rimedi dalle conseguenze insopportabili, attrezzature mediche che assomigliano ad oggetti di tortura?
Medicamenta: cura e veleno. Il dissacrante commediografo francese, che afflitto dalla tubercolosi ha trascorso gli ultimi anni della sua vita proprio tra questi rimedi e questi medici, tra gli scossoni di tosse tubercolotica, con questa piéce teatrale sputa tutto il suo odio rancoroso sul mondo della medicina, senza risparmiare nessuno, nemmeno sé stesso. Si autocita infatti, parlando male di sé e del suo lavoro, evidenziando la forte consapevolezza delle critiche che la società gli muoveva, inserendo tra le battute del testo le sue aspre risposte. Nelle pieghe delle farsa, tra lucide visioni di realtà e spaccati di visionaria fantasia, Chiti riporta in scena un’attualissima commedia, che tra risate a denti stretti e silenzi di stupore, parla oggi come allora all’uomo, che senza corpo non sarebbe tale, e alla sua mente, che in esso a volte ci sta stretta, e che ha bisogno di evadere, di immaginare.
L’ultimo Molière, quello malato, per davvero, distrutto e disilluso, non attacca la scienza e il progresso di per sé, ma coloro che pur vivendo in tale progresso, si dimenticano di guardare a quei mali così immaginariamente reali che affliggono le esistenze degli uomini senza distinzione di spazio e di tempo. Solitudine, paura di morire, angoscia della malattia, corpo che diventa prigione, vecchiaia, indifferenza. Con il suo genio irriverente, Molière porta Argante a disseppellire il suo vero male, il suo vero dolore e nella paura dell’abbandono, lo conduce a capire quale davvero può essere la cura che serve. Niente medicine, niente cialtronerie, niente dottori e paroloni. L’unico rimedio senza tempo resta sempre uno solo: l’amore. Va bene in ogni dose, in ogni momento, in qualunque forma. Ed è privo di effetti collaterali. Forse..