Dall’8 marzo al 2 luglio 2017 il palazzo Reale di Milano accoglie le meraviglie pittoriche di Ѐduard Manet, frutti del suo sguardo su Parigi e sulla sua evoluzione.
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_di Silvia Ferrannini
‘Sur un fond d’une lumière infernal ou sur un fond d’aurore boréale […] s’enlève l’image variée de la beauté interlope’ (Charles Baudelaire)
Interni casalinghi, bevitori d’assenzio, vasi di fiori e piccoli musicisti: non è difficile pensare ad un pittore moderno o contemporaneo che possegga almeno uno di questi soggetti nel suo repertorio. Ma chi fra questi riesce a mostrarceli in modo autenticamente diverso? Che inizi pure il viaggio a ritroso attraverso le opere e i sogni dei pittori rivoluzionari: alla fine, fra gli altri, senza dubbio troveremo Ѐduard Manet.
Questi da sempre figura nella storia dell’arte del XIX sec. come il precursore dell’Impressionismo, dei cui i modi e gli stilemi fu anticipatore e profeta: ma probabilmente è andato anche oltre, o quantomeno ha fatto molto di più. In effetti la sua opera non si può ascrivere a pieno titolo nella stagione impressionistica e le innovazioni che attua in seno alla rappresentazione pittorica sono meno “posizionabili” entro categorie o scuole rispetto a quella dei suoi illustri successori.
Questo perché Manet è stato momento di transizione tra realismo e impressione, influenzando non solo l’arte a lui coeva ma anche (e soprattutto) quella successiva.
«Conquistare il Salon» per Manet vuol dire annientare con padronanza di mezzi le dissimulazioni e i costrutti dell’arte accademica: la sua arte è un j’accuse alla tirannia dell’élite culturale e agisce a partire dalle qualità materiali (spazio, luce, posizione) della tela, fino a conferire “diritto di cittadinanza” a soggetti nuovi e davvero moderni. Dalla forma al contenuto, Manet dà vita a una rivoluzione totale. Vero che ciò comportò i reiterati rifiuti del Salon e le velenosissime accuse da parte degli accademici di essere un «sobillatore», un pittore «impopolare e grottesco», un artista «alla ricerca di fama» anche a costo di mortificare la nobiltà del genere della pittura: niente di più lontano dalla realtà. Né velleitario dissidente, né tantomeno ignorante: se Manet ad oggi è riconosciuto come una dei padri fondatori della pittura contemporanea è perché egli ha operato alle radici della rappresentazione pittorica, senza rifiutare né annientare alcunché, bensì reinventando. Non sarà un caso che Degas abbia affermato che «[Manet] traeva elementi da tutti, ma che meraviglia la maestria pittorica con la quale riusciva a fare qualcosa di nuovo!».
«La sua arte è un j’accuse alla tirannia dell’élite culturale»
Su cosa polemizzavano dunque i detrattori? Sostanzialmente il fatto che dei soggetti assolutamente antiborghesi (prostitute, mendicanti, bambini, ma anche borghesi immortalati in momenti non consoni alla loro posizione sociale) fossero impressi sulla tela secondo modalità rappresentative del tutto inconsuete. Lo spettatore, non più in una posizione ideale che il pittore ha pensato per lui ma semplice osservatore della realtà, si ritrova davanti agli occhi uno spazio che denuncia la sua connaturata bidimensionalità, una luce distribuita sulla tela come se provenisse davvero dall’esterno e tinte intense e soavi insieme. Il nero, colore notoriamente bandito dalla tavolozza impressionista, spesso è il vero protagonista dell’opera: è dominante, ad esempio, ne Le fifre (1886), o ne Le balcon, (1868-69), ed è destinato a diventare uno degli elementi più riconoscibili ed espressivi della sua maniera.
È anche vero che Manet vantava l’appoggio di Charles Baudelaire («il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico…» dirà profeticamente al termine del Salon del 1845), di Stephane Mallarmé (il cui anticonvenzionale e naturalissimo ritratto del 1876 rivela la genuinità dello sguardo manetiano sull’amico) e, immancabilmente, Émile Zola, il cui celeberrimo ritratto del 1868 apre solennemente la mostra e conquista lo spettatore. Quell’eccentrico pittore stava andando contro qualsiasi corrente e gli intellettuali più illuminati lo capirono molto bene.
Si può affermare a buon diritto che Manet può essere capito soprattutto a partire da coloro che non lo capirono affatto. E dagli artisti che come lui stavano allestendo a Parigi la medesima battaglia, beninteso. Parigi infatti, in questa avventura artistica e umana insieme, è apertura e chiusura del cerchio, è esattamente la tela su cui il pittore riversa ogni ispirazione: Parigi come centro culturale, Parigi come cuore urbano, Parigi come terra su cui, ogni giorno, danza e vive la comédie humaine della modernità.
Promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, curata da Guy Cogeval (storico presidente del Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi) con le due conservatrici del Museo Caroline Mathieu (conservatore generale onorario) e Isolde Pludermacher (conservatore del dipartimento di pittura), la mostra milanese assume proprio la Cité come punto di partenza, abbracciando sì l’iter artistico di Éduard Manet ma senza dimenticare il lavoro degli artisti a lui coevi. Costituito da capolavori provenienti dal Musée d’Orsay e organizzato per sezioni tematiche, il percorso al Palazzo Reale si sofferma sulla nascita della capitale francese così come la conosciamo oggi, mostrando numerosi prospetti architettonici e progetti edili voluti da Napoleone III, accanto ai dipinti di, fra gli altri, Paul Signac (Route de Gennevilliers, 1883) e Claude Monet (Le Tuileries, 1875).
Le ambientazioni cittadine, dalle più opulente a quelle più umili, si fanno spazio tra i corridoi e le sale, come passeggiassimo tra le vie della città, buttando di tanto in tanto l’occhio dentro l’Opéra e i suoi retroscena: le immancabili ballerine di Edgar Degas, qui immortalate ne Le foyer de la danse à l’Opéra (1872), l’affollata soirée dal gusto proustiano di Jean Béraud (Scène du Bal, 1878), ma anche i meno abbienti come la Serveuse de bocks (1878) di Manet, colta in un fugace momento mentre guarda dritto negli occhi lo spettatore, o il ritratto all’amica pittrice Berthe Morisot (Berthe Morisot au bouquet de violettes, 1872), ancora di Manet, fino alle evidenti e incontrastate ingiustizie sociali come in Ce qu’on appelle le vagabondage (1855) di Alfred Stevens, autentica denuncia della miseria degli indigenti.

Non solo Parigi però: man mano che il percorso procede si rintracciano anche altre immagini e idee care a Manet che travalicano i confini parigini. Vi è il mare, con cui il pittore convisse durante l’adolescenza (i genitori speravano che potesse diventare comandante navale): in L’Évasion de Rochefort (1880-81) il rabbioso spumeggiare delle onde è presagio della fine del critico antimperialista Henri Rochefort; vi è la Spagna, visitata nel 1865 ma sognata già diversi anni prima (l’effervescente Lola de Valencia viene realizzata qualche anno prima di recarsi là), la cui irriverenza di colori e di luci parla della vita stessa attraverso una felicissima convivenza di pennellate materiche e accesi dettagli dentro lo stesso spazio narrativo. In una lettera a Baudelaire del 14 settembre dello stesso anno, Manet scrive senza indugi che «Velázquez è il più grande pittore che sia mai esistito» e rivela il suo amore per il corposo e squillante realismo iberico, al cui spirito rimase in un qualche modo fedele anche una volta tornato in patria.
A chiudere il percorso, un omaggio all’universo femminile, candido come gli abiti della moglie di Suzanne Leenhoff (moglie di Manet) ma anche scuro i ventagli nel ritratto di Nina de Callias ne La dama con ventagli (1872).
Il racconto della mostra è narrazione di uno sguardo, critico e sentimentale insieme, di un artista con cuore e piedi ben saldi al momento storico in cui viveva: l’alba della modernità.
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