Dentro le gang

Biennale Democrazia ha dedicato un approfondimento ad hoc al fenomeno delle gang giovanili, analizzato innanzitutto dal punto di vista sociale attraverso una serie di incontri alla Scuola Holden di Torino.

_di Edoardo D’Amato

La quinta edizione di Biennale Democrazia, che si è conclusa pochi giorni fa con l’intervento di Roberto Saviano, ha offerto come sempre moltissimi spunti di riflessione su alcuni temi d’attualità estremamente delicati. Uno di questi, che peraltro è stato uno dei principali fil rouge dell’intera manifestazione e al tempo stesso elemento cardine del programma amministrativo torinese, è quello legato alla periferia e alla ricostruzione di una concreta cerniera tra essa e il centro. Quello che accade in certe zone della città (intesa in senso generico) è spesso il frutto di politiche sociali inesistenti, che non tengono conto dell’importanza che può ricoprire la trasformazione del territorio, dei suoi spazi di socialità e delle forme di aggregazione. Il tema delle gang giovanili si inserisce in questo quadro: si tratta di un fenomeno violento, persistente nelle aree particolarmente fragili e difficilmente accessibili della grandi città. E’ anche poco studiato, visto che i media tendono a spettacolarizzarlo senza indagare sulle cause e le dinamiche che lo formano.

Insieme a Fabio Armao (docente di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del territorio dell’Università di Torino) e Luca Queirolo Palmas (docente di Sociologia delle migrazioni, dirige il Laboratorio di Sociologia visuale presso l’Università di Genova), si è analizzato quello che accade nelle grandi periferie europee, considerando la genesi e l’evoluzione di questi gruppi dal punto di vista sociale. Non stiamo parlando di eserciti con un’organizzazione piramidale, ma di “bande” (termine in realtà rifiutato dagli stessi componenti) che continuano a riprodursi perchè spesso permettono a chi si affilia di avere delle relazioni sociali che altrimenti gli sarebbero precluse. I ragazzi che entrano in questi ambienti escono dalla solitudine ed entrano in uno status quo che innanzitutto fa sentire loro appartenenti ad un qualcosa di estremamente “cool”. Avendo e dando dei valori (all’interno delle bande c’è tutto un humus culturale fatto di rituali, arte e musica), le gang rappresentano le uscite di emergenza per quei soggetti rifiutati dal mercato del lavoro, dalla scuola e dal capitale simbolico della reputazione.

Il graffitismo è una delle principali forme d’arte delle gang. Foto di Valerio Polici all’interno del progetto “Ergo sum”

«Le gang sono luoghi informali che accolgono tutto ciò che è scartato da altri luoghi della società. Dentro esse si può sviluppare una socialità giovanile meticcia»

Se ragazzi con un età che va dai 13 ai 16 anni si aggregano così vuol dire che il fenomeno è più complesso di quello che può apparire leggendo le notizie di cronaca nera dei media generalisti. Nella Genova nei primi anni zero, a leggere i quotidiani (specialmente quelli locali), sembrava che il principale problema della città fossero le bande. C’era e tuttora persiste un proliferare di notizie tese a costruire un allarme mediatico che considera l’esistenza delle gang come un problema squisitamente di ordine pubblico. Quanto accade nelle periferie del capoluogo ligure, a Torino e Milano con i Latin Kings, Barrio 18 e Mara Salvatrucha 13 è in realtà una problematica di tipo sociale innanzitutto: i ragazzi migranti si affiliano alle gang perchè è l’unico polo di aggregazione in cui vengono accettati e inseriti. Entrano così in un mondo in continuo movimento: come spiega Palmas, i ragazzi di Genova ad esempio potevano partire in qualcunque momento in direzione Barcellona, dove trovavano sicuramente un tetto sotto cui stare.

Proprio nella metropoli catalana, fino a pochi anni fa, si è assistito ad un esperimento sociale di politica inclusiva da parte dell’amministrazione: Barcellona infatti ha legalizzato alcune gang (come ad esempio i Latin Kings) riconoscendo queste come vere e proprie associazioni culturali dotate di statuto. Un passo in avanti importante, costruito in primo luogo dalla polizia. Il Comune spagnolo è stato di fatto il primo a riconoscere le gang come associazioni aventi scopo di inserimento sociale, cosa che a Madrid e in Francia ad esempio non è mai accaduta. Nel 2011 questa gestione sociale e morale è finita anche lì.

“The Hell of Scampia”, foto di Salvatore Esposito

«Le gang rappresentano uscite di emergenza per quei soggetti rifiutati dal mercato del lavoro, dalla scuola e dal capitale simbolico della reputazione»

Chiariamo un punto: il focus non vuole essere un’apologia delle gang, ma semplicemente l’indagine di un fenomeno che in Italia è in continua crescita. Dati ufficiali non esistono, ma si stima che nella sola Milano ci siano qualcosa come duemila affiliati, con attività che si sono spostate prevalentemente nel centro città (anche se i componenti vivono in periferia). Ma la presenza dei latinos è registrata anche a Genova, Piacenza, Torino e in molte altre città italiane. Il progetto “Gangcity”, presentato appunto durante Biennale Democrazia, è nato poco più di un anno fa e ha proprio lo scopo di andare al di là dell’aspetto cronachistico violento (componente che esiste, ma non è l’unica) per provare a capire le dinamiche di quanto accade all’interno di una banda e perchè i ragazzini ne sono così attratti. Il docu-film “Buscando Respecto” di Josè Gonzàlez Morandi e Luca Queirolo Palmas ha proprio l’obiettivo di affrontare il tema dal punto di vista etnografico. Frutto di due anni di studio dei latin kings di Barcellona, Buscando Respecto è un incrocio fra documentario e fiction (ci sono attori, ragazzi presi dalla strada, affiliati e non).

Si nota fin da subito l’esigenza di stare in un gruppo, di farne parte a tutti i costi. Tuttavia, contrariamente a ciò che possiamo immaginare, emerge che queste organizzazioni non agisono unitariamente e ogni persona ha idee e intenzioni diverse. C’è chi vive la partecipazione in maniera più attiva rispetto ad altri, chi si macchia di violenza e chi no, chi incide dischi oppure riempie di graffiti le strade della città. Certamente un dato significativo è che questi ragazzi, anche se non lo sanno, vivono all’interno delle gang europee un momento giovanile di passaggio. Questo è un aspetto che differisce rispetto a quanto accade in Sud America. Certo, i gruppi nei loro luoghi d’origine sono molto diversi rispetto a quelli formati da migranti che si sono stabiliti in Europa.

Un ragazzino di Città del Guatemala pensa a suo padre, affiliato di una gang, ora in carcere. Foto di Donna De Cesare.

«Somos la cuenta que nadie quiso pagar» Wilver García, ex MS13

Quello delle gang  è un mondo fatto di identità diasporiche, di conflitti e rivendicazioni di rispetto, di violenze subite e agite, di solidarietà materiale e di fratellanza. Così si sono creati nuovi spazi pubblici con cui fare i conti, come sottolinea indirettamente Wilver Garcia, un ex affiliato delle MS13. Il rifiuto di essere inquadrati come “bande” sta proprio nel fatto che i componenti dei gruppi si sentono inseriti in una seconda famiglia, anzi in molti casi per loro rappresentano la prima: nella loro condizione di marginalità e vulnerabilità rinascono come esseri umani in un contesto collettivo alternativo organizzato nelle periferie di tutto il mondo.

«È difficile produrre un sapere sulle bande giovanili sino a quando la nostra vista di ricercatori e accademici sta dentro un universo fatto di carta» dice Queirolo Palmas. Sia da parte del mondo accademico che da quello giornalistico (per motivi diversi) c’è una grande difficoltà a capire queste aggregazioni che comunicano fra di loro e con l’ambiente circostante attraverso tatuaggi, murales e musica. La delinquenza e la criminalità al loro interno esiste, è documentata ampiamente, ma non sono solo questo: rappresentano anche gruppi che sanno produrre cultura, ma fin quando non ci si addentra in prima persona queste realtà rimangono indecifrabili o comunque incomprese. Le gang costruiscono tutto un universo carico di simboli che ruotano attorno a rivendicazioni politiche collettive: si prendano ad esempio proprio i latin kings. Latin perchè sono gli ultimi, cioè quelli che raccolgono i pomodori o puliscono le case. Essi però diventano Kings appena entrano in una banda, perchè solo lì sono dei re. E la maggior parte dei ragazzini che si affiliano sono proprio affascinati da questo aspetto, più che da quello legato alla violenza. Addirittura molto spesso si diventa latin king per fare colpo su una ragazza.

La dimensione religiosa è fondamentale nell’immaginario delle gang. Foto di Walter Leonardi

Se questi gruppi costruiscono dei veri mondi paralleli, microcosmi culturali ricchi di valori non solo simbolici, allora significa che la democrazia ha fallito? La domanda può prestarsi a diverse risposte, ma la sensazione è che più passa il tempo e più si avverte l’esigenza di una politica sulle bande fondamentale per capire che evoluzione esse possano avere. Una scelta che potrebbe togliere le gang dalla marginalità dell’economia della strada e forse farle evolvere in qualcosa di positivo.

Tutte le foto fanno parte della mostra “Gangcity”, progetto del Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio. Illustrazione in copertina di Silviu Chiriac.