Roberto Saviano tra periferia, potere e rap alla Biennale Democrazia

La breve ma efficace disamina di Roberto Saviano sulla microfisica del potere contemporaneo ha affascinato e sconfortato al contempo il foltissimo pubblico di Biennale Democrazia, che il 2 aprile è stato interlocutore dello scrittore napoletano al Teatro Regio.

_di Silvia Ferrannini

Video rap ambientati a Scampia, agghiaccianti dati numerici sul narcotraffico nel mondo e rabbiosi commenti di chi ha votato Trump suonano forse un poco dissonanti tra i sipari di velluto rosso e le soffuse luci della sala, ma la forza delle emozioni che l’incontro ha suscitato può essere simile a quella dei tanti spettacoli qui andati in scena. In un’ora e un quarto d’incontro non si esaurisce un argomento vasto ed eterogeneo come Il racconto del potere: ma certamente minuto dopo minuto la tensione cresceva e instillava sgomento, stupore, vergogna, senso di colpa.

L’argomento è chiaro a tutti: come si articola il potere, e come raccontarlo?

«Quanto ci piacciono le teorie cospirazioniste» esordisce Saviano: effettivamente convincersi che 10 20 50 persone stiano tramando alle tue spalle è più facile perché sai immediatamente con chi prendertela e ti risparmi la fatica di cercare più a fondo (o altrove). Convinzione fallace, molto fallace: il potere non è centripeto. La realtà è estremamente più complessa; e quanto calzano bene qui le parole del Faber: “Anche se ci crediamo assolti, siamo tutti coinvolti”

Per capire la sintassi del potere bisogna essere innanzitutto consapevoli del fatto che noi stessi ne siamo emanazione: come un batterio questo s’insinua nei comportamenti, nei desideri, nei volti e nei corpi, si riproduce e si sviluppa in modo funzionale ai propri bisogni. E’ così che, come un contagio, il potere diventa pervasivo e si stratifica, cosicché individuarne il centro diventa sempre più difficile. Saviano prende le mosse precisamente da qui: per comprendere il potere non bisogna appagarsi del primo livello di conoscenza. Bisogna scavare, far intellegere gli elementi che ricaviamo, renderli cioè comprensibili una volta legati insieme e avviarci verso la conoscenza.

Questi indizi del potere possono esplicarsi in molti modi, anche i più inattesi: Saviano negli ultimi anni s’è concentrato soprattutto sulla giovanissime generazioni, corde sottili su cui riverbera il potere contemporaneo.

«Come deve vedere la propria vita un ragazzino di 14 o 15 o 16 anni che cresce nel nostro paese?». Gran parte della sintassi dei giovani passa attraverso la musica, in particolare dall’hip-hop o dal rap: qui la lingua è il dialetto perchè parte integrante della propria carne e della propria terra, e dunque forma d’espressione più autentica.

E’ proprio nelle pieghe (neanche troppo riposte) delle loro canzoni e nelle loro immagini che il potere parla. Enzo Dong (rapper napoletano, classe 90, cresciuto tra Scampia, Secondigliano e Piscinola) si serve di Higuain per augurare il peggio agli “infami” che in passato lo hanno tradito. Può cantare «Oooh mi diverto solo se/ a morire è un Higuain» perchè il nome del calciatore che è passato dal Napoli alla Juve è diventato sinonimo d’infamia: si è tirato fuori e ha rotto una promessa. E’ infame perché ha agito in modo diverso non solo rispetto a quanto aveva detto in passato (giurando fedeltà eterna al Napoli), ma soprattutto rispetto agli stessi napoletani. Una metafora azzardata e sicuramente sopra le righe, oltre che del tutto opinabile, eppure specchio fedele dell’ambiente in cui è calato Enzo Dong  – che, va detto, andando oltre ai versi poco accomodanti delle sue canzoni, offre diversi piani di lettura (estremi certo, ma anche costruttivi) come emerge da questa intervista:

I rapper Le Scimmie (Vale Lambo e Lele Blade) parlano apertamente di famiglie di camorristi e dei loro modi di vita («Teng nu sosia ca sta chin e giall/ Fa Giulio Cesare ma è nu fallut nsiem e Cesarei […] Ndò Monte Rosa o barbier tagl e capill a mestier/ Doje furbiciat a famiglia»), dell’omertà nei quartieri («Nun parl nun sent e nun vec»), allo «zucchero» (ossia i soldi). Illuminante l’ultimo verso: «quando rappiamo eliminiamo scorie».

La chiave sta proprio qua: quel che cantano non è una storiella proprinata loro da qualcun altro, ma è la cifra esatta della dimensione in cui vivono: è la loro terra e la loro realtà, raccontano chi dalla loro prospettiva ha veramente il potere, chi ha il controllo sui corpi, chi sorveglia e punisce nei loro spazi.

Nel momento in cui si capisce il valore di quest riferimenti ogni immagine diventa più nitida: lo champagne, ad esempio, bevanda costosa e connessa all’idea di festa, ha anche la peculiare caratteristica di non poter essere richiusa una volta aperta. Loro si vedono esattamente così: una volta liberi diventano inarrestabili. Ed è proprio quando sei libero (o credi di esserlo) che puoi permetterti d’imbracciare ogni arma (metaforica e non) e ottenere quello che vuoi: in questo caso soldi, tanto tempo libero, tanta droga e tante donne: ecco che un improbabilissimo Dan Bilzerian diventa modello di vita, e le bandiere dell’ISIS sventolano nei video del già citato Enzo Dong.

Già, che c’entra l’ISIS? L’aberrazione è arrivata fin qui. La simpatia nei confronti dei giovani jihadisti sta nel fatto che fin da subito sono stati esposti alla morte in quanto criminali, e dunque morire non significa perdere la vita ma ottenere quello che volevano e darne prova a tutti. I ragazzi di Napoli, senza alcuna prospettiva di futuro e senza fiducia nell’impegno e nella fatica, preferiscono vivere al massimo e morire presto? Si tratta di un’ostentazione provocatoria e iperbolica, decisamente “al limite”, ma (anche) questa è la grammatica del rap.

L’unica forma di realizzazione materiale e personale in cui credono è far soldi, concetto che si lega all’imbroglio con fin troppa facilità: e come dar loro torto, se ogni stato d’Europa ha una propria cassa illegale, se Londra è il principale centro di riciclaggio di capitale illegale al mondo, se il 90% dell’eroina è gestita dai talebani (potentissimi narcotrafficanti dunque, più che soldati di Allah?).

E’ chiaro allora che la periferia non è più il luogo in cui finisce la città, bensì quella in cui si annidano le vere dinamiche del potere: parlarne non vuol dire diffamare il paese, ma raccontarlo davvero.

Nascondere è ignobile e aggrava l’infezione della ferita: in effetti, a ben guardare, chi ambisce al potere durante la campagna elettorale elenca tutto ciò che non va e quando finalmente lo ottiene tutto deve sembrare che funzioni. Questo meccanismo innesca una reazione a catena per cui più informazioni dai meno chiarezza avrai. Allora tenere il volume basso, la temperatura tiepida o, ancor peggio, aggravare o edulcorare falsamente permette di stare a galla senza troppi sconvolgimenti.

Il potere ha il dono della parola e dell’affabulazione e può portare a paradossi quali, ad esempio, la vittoria di Donald Trump, votato da cittadini che non condividono in alcun modo il suo programma politico ma che apprezzano “la schiettezza”, “perchè ha scavalcato i perimetri del politically correct, perchè “esprime quello che magari gli altri pensano ma tacciono”. La violenza scava la sua tana nel mondo del linguaggio e bisogna scavare, scavare parecchio, per tirarla fuori e opporgli resistenza. Occorre ripartire da qui.