Siamo entrati nel guscio di Ian McEwan

Un feto poeta esistenzialista, una madre che pianifica un omicidio e un particolare omaggio a Shakespeare? Dialogando con Andrea Bajani nella conferenza all’Auditorium della Cavallerizza Reale di Torino (targata Circolo dei lettori), lo scrittore inglese ha sviscerato alcune tematiche del suo ultimo romanzo intitolato “Nel Guscio”. 

_di Pier Allegri

Nella serata di lunedì 20 marzo, equinozio di primavera, nel moderno spazio dell’Auditorium della Cavallerizza, lo scrittore inglese ha incontrato Andrea Bajani, autore (Ogni promessa, Se consideri le colpe), per parlare del suo nuovo attesissimo libro, “Nel Guscio” (“Nutshell”), storia di un feto poeta ed esistenzialista che ascolta impotente ai piani omicidi della madre Trudy e dello zio, suo amante, Claude. Un Amleto introverso. Letteralmente.

Aria sbarazzina, gli occhi piccoli, Ian McEwan si presenta vestito sufficientemente elegante, un timido sorriso sul volto. Oserei dire che non si distinguerebbe da nessun settantenne in sala, lui autore di alcune delle storie più belle e particolari della letteratura contemporanea e del ‘900, alcune così cupe e cruente che gli hanno fatto guadagnare il soprannome scherzoso di “Ian Macabre”. 

“Potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse per la compagnia dei brutti sogni.”

Il colpo d’occhio dell’Auditorium stracolmo è notevole: per coloro che si sono persi l’incontro, abbiamo deciso di rievocare fedelmente il botta e risposta tra McEwan e Bajani.

A.B. Questo libro è una rivisitazione estremamente suggestiva dell’ “Amleto” di Shakespeare. Dimmi, hai riletto “Amleto” prima di scrivere questo libro?

I.M. “Parte da Amleto. Ero a questo meeting particolarmente noioso e a un certo punto mi appare in testa una frase, una frase dall’”Amleto” che stavo leggendo in quel periodo. E mi sono chiesto di chi fosse questa voce. Ed è allora che ho pensato all’idea di un feto, un essere nell’oscurità, un auditore senziente e terribilmente intelligente. Un feto di prima classe insomma, con un grande senso dell’umorismo. Non ci ho messo molto a decidermi di cominciare a scrivere. Di un feto ci si può sempre fidare (ride). Essendo un ascoltatore, assume tutto ciò che sente e prova sua madre, anche il suo piano per uccidere il marito. E’ molto vicino a sua madre, letteralmente! Inoltre questo feto mi ha fatto un grande favore nello scrivere: tutto veniva quasi automaticamente, senza sforzo, visto lo spazio limitato in cui il mio protagonista vive. Insomma, tutto questo per dirti che è venuto tutto naturalmente da un elemento nel buio.”

A.B. Però il feto è anche un complice di sua madre, sente quando mente, quando tradisce (d’altronde, il corpo non mente). Quindi, indirettamente, è anche complice dell’omicidio del padre.

I.M. “Come Amleto, il suo dovere lo costringerebbe a vendicare suo padre. Ma è ovviamente impossibile per un feto. Il protagonista condivide inoltre con Amleto il suo eccessivo pensare e la sua mancanza di azione: riflette sul crimine, sull’amore per sua madre, un’assassina. Arriva a pensare al suicidio a causa di questo dilemma, sempre come Amleto (“essere o non essere”, per intenderci), ma, di nuovo, è molto difficile non essendo ancora nato. E’ sempre difficile entrare dentro una persona, anche quando si è letteralmente dentro.”

«Parte della mia ambizione per questo libro era di scrivere la rinascita di Shakespeare»

A.B. Il dubbio amletico per eccellenza è vissuto meravigliosamente dal protagonista. Il guscio è il ventre della madre, ma anche il nostro corpo che ci contiene, la nostra prigione. Anche nell’Arte si parla e ci si esprime in spazi limitati.

I.M. “Faccio in modo che il mio feto ragioni su uno spazio limitato, come Jane Austen ragionava esclusivamente sul matrimonio nel XVIII secolo, Darwin sull’evoluzione e così via. Tutto per giustificare la mia scelta di parlare di una spazio limitato, così come in letteratura: questo è un romanzo molto corto, che però dice molto.”

A.B. Tu, personalmente, quanto sei stato dentro il guscio?

I.M. “Ci ho messo 16 mesi a scrivere il tutto. E, così come succede con tutte le opere d’arte in via di sviluppo, ho cominciato a riflettere: l’anno prossimo compio 70 anni, è il momento di una vacanza. Devo ammettere, però, che mentre scrivevo mi divertivo molto, e questo mi faceva sentire terribilmente in colpa (ride). Di sicuro non l’avrei passata liscia. Però bisogna dire una cosa: gli scrittori, quando vengono in spazi come questo, raccontano sempre del dolore e la fatica che suscita lo scrivere, mentre è anche un’immensa gioia. In momenti rari ti dimentichi di esistere e diventi ciò che scrivi, sorprendendoti di te stesso. Sono vette meravigliose nella vita di un adulto.”

A.B. Qual è la relazione fra il feto e suo padre, un poeta? Va fiero del genitore?

I.M. “Parte della mia ambizione per questo libro era di scrivere la rinascita di Shakespeare. Nel romanzo ci sono molti riferimenti a riguardo. Il protagonista ha un grande amore per la poesia perché egli stesso fu un poeta. E quindi è ovvia la simpatia del figlio per il padre. Ho voluto affrontare l’ansia dei romanzieri come me, che sanno che l’apice inarrivabile della scrittura è la poesia e vorrebbero essere in grado di vivere di quest’ultima. Un’espressione artistica inarrivabile, a cui ho voluto fare la riverenza.”

A.B. Il guscio ricorda anche un’isola. Un’isola come l’Inghilterra. Quanto del tuo paese c’è in questo romanzo?

I.M. “Noi siamo un’isola, ora alla deriva nell’Atlantico. Mi dà un dolore immenso saperci divisi da uno dei più grandi progetti politici della storia dell’umanità, l’Unione Europea, a causa di fanatici che ci dividono da quel grande “noi” che potremmo essere, oggi più che mai, nel momento del bisogno e dell’unità. Ci vorrà del tempo, ma è possibile che ritorneremo. Più uniti di prima.”

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