Non preoccupatevi se vi siete persi durante la proiezione. Lo scopo era questo, presumo. “Toni Erdmann” della regista Maren Ede commuove, stupisce, diverte zigzagando senza controllo tra una scena e l’altra.
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_di Pier Allegri
Elogiatissimo all’ultimo Festival di Cannes, campione indiscusso agli European Film Awards con cinque premi e candidato all’Oscar come miglior film straniero, Toni Erdmann è una meteora e un’anomalia nel panorama della comedy padre&figlia: si tramuta prima in denuncia alla globalizazzione, poi in manifesto sentimentale e filosofico sul senso della vita, il tutto con una grazia invidiabile e sorprendente.
Winfried è un’insegnante di musica in pensione e divorziato, eppure un’ inguaribile romantico e umanista, incapace però di mantenere un rapporto salutare con la figlia drogata di lavoro Ines, manager di successo in una grande azienda internazionale di Bucarest. In vista del suo compleanno, l’uomo decide di sorprenderla con una sortita in Romania, che si rivela ovviamente un disastro: perennemente trasandato, con una battuta e uno scherzo fuori luogo perennemente in canna, Winfried finisce per imbarazzare orribilmente Ines, sull’orlo di una crisi di nervi causa una possibile e ambitissima promozione legata a un’ipotesi di delocalizzazione che finirebbe però per licenziare un centinaio di persone.
«Dietro una vena di assurdità, si nasconde la verità della vita»
L’uomo decide di lasciare anticipatamente Bucarest, solo per poi ritornare travestito dal suo alter ego Toni Erdmann, un (finto) consulente e coach motivazionale alle direttive di Ines stessa. La donna osserva attonita il proprio padre muoversi attraverso party aziendali a suon di battutacce, storie assurde e tanta malinconia, finché sorprendentemente non decide di accettare la sfida del genitore e portarlo nei luoghi della Romania di oggi, dove lavora, mostrandogli/ci una realtà sì in via di sviluppo, ma anche arretrata e povera, soggetta alle angherie del capitalismo emergente e di chi ne detiene i soli diritti. La sfida diventa però, diventa piano piano un’analisi surreale per entrambi i protagonisti: da un lato, Winfried non riesce a gestire e mantenere il suo idealismo umanitario di fronte allo spettacolo della crisi economica; dall’altro, Ines, osservando la spontaneità e allegrezza contagiosa del padre en travesti, comincia a dubitare del vero valore della propria vita, fatta di riunioni, slide e piani di lavoro senza spazio per i sentimenti.
La regia e la sceneggiatura sono, come il protagonista Winfried, pieni di sorpresa: non vi è mai un’unica direzione, un unico tema, ma bensì pare tutto agito d’impulso e per tale ragione tutto il film è meravigliosamente umano. Non si dà spazio alla storia, bensì al tempo, ai sentimenti dei personaggi, con una lentezza degna del cinema-verité. La lunghezza provante del film (ben 2 ore e 42 minuti!) mette alla prova la nostra capacità di lasciarci andare alle stranezze e ai sbalzi d’umore del film, senza chiederci troppi perché. Alla fine rimarrà l’amaro in bocca temo, ma non poteva essere altrimenti: dietro una vena di assurdità, si nasconde la verità della vita. Spesso troppo amara per essere gestita razionalmente.