Il secondo film del regista, attore e volto televisivo siciliano non bissa il successo al botteghino ottenuto con “La Mafia uccide solo d’estate” ma porta avanti un’idea di cinema “didattico” che mescola ironia e tragedia, pagine di cronaca e atmosfere fiabesche.
di Simone Glorioso – È il 1943. Arturo Giammarresi (Pierfrancesco Diliberto) è uno dei tanti emigrati italiani in America, garzone di un ristorante italiano in quel di New York. È innamorato di Flora (Miriam Leone), la nipote del proprietario, e -beato lui- è ricambiato. Ma i due, nemmeno a dirlo, non possono sposarsi: la mano di Flora è stata promessa dallo zio al rampollo di una potente famiglia mafiosa, molto vicina al boss Lucky Luciano. L’unica via per aggirare l’ostacolo è quindi chiedere il benestare direttamente al padre della bella, che risiede però a Crisafullo, piccolo paese di una Sicilia che in quegli anni è teatro di alcuni tra i più importanti eventi del secondo conflitto mondiale. Ma Miriam Leone val bene una guerra, ed il garzone, che non si sarebbe mai potuto permettere il viaggio altrimenti, si farà soldato “per amore”: sbarcato in Trinacria, con l’aiuto del Lieutenant-amico Philip Catelli (Andrea Di Stefano), il protagonista tenterà di ottenere l’agognata benedizione.
L’omonimia tra i protagonisti di “In guerra per amore” e quelli della prima fatica di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, non è un caso: se il secondo film è da considerarsi un prequel, però, è molto più per gli importanti avvenimenti storici raccontati (nella misura in cui essi costituiscono il presupposto dello scenario sociale immortalato dal primo) che non per le personali vicende dei protagonisti. Arturo Giammarresi è infatti, differenze anagrafiche a parte, sempre lo stesso: un personaggio ingenuo e fiducioso, che lo spettatore accompagna durante una lenta presa di coscienza della situazione e delle problematiche di una Sicilia “liberata dalla dittatura fascista e consegnata a quella mafiosa”, mentre il registro comico scivola in quello tragico-didattico e i grandi eventi sottraggono prepotenti il palcoscenico alle piccole vicende personali dei protagonisti.
La regia di Pif risulta più matura rispetto a quella della sua prima esperienza sul grande schermo e, pur alternando alle molte ottime intuizioni qualche ingenuità – come la ricerca, a tratti un po’ forzata, delle gags comiche o la scelta di soluzioni non troppo efficaci in alcuni passaggi – ci consegna una pellicola decisamente godibile nel suo insieme, priva di alcune imperfezioni che si potevano notare nel suo primo lavoro.
I dialoghi, più convincenti in dialetto che in inglese, sono sostenuti dell’eccellente recitazione del cast (tra i molti, bravissimi attori, è da sottolineare l’ottima performance di Sergio Vespertino, nel ruolo di Saro) e sanno regalare in più punti risate sincere. La buona alchimia tra una fotografia onesta, che sa esaltare gli stupendi paesaggi siciliani, e le musiche, sempre puntuali nel sottolineare il tono del momento, accompagna perfettamente le peripezie dei personaggi, calando lo spettatore in un’atmosfera a tratti quasi fiabesca, nella quale è sempre percettibile, ma senza mai divenire fastidiosa, la eco di un certo cinema di Benigni.
Nella narrazione del regista siciliano, le storie dei vari personaggi sono, però, raccontate non solo –e forse non tanto- per l’interesse ad esse intrinseco o per il divertimento che potrebbero suscitare: divengono soprattutto pretesti, escamotage narrativi costruiti ad arte, per illuminare ogni volta un diverso aspetto di quella realtà storica che era autentico interesse dell’autore descrivere. Accade così che i vari filoni della storia muoiano, forse un po’ troppo bruscamente, una volta esaurita la loro funzione esemplare: al regista non preme che le vicende trovino una conclusione, non è preoccupato di abbandonarle nella stessa incertezza dalla quale le aveva tratte all’inizio del racconto.
Proprio nella difficoltà di essere omosessuali nella Sicilia fascista e mafiosa, infatti, nella delusione di chi credeva nel regime, nel dolore senza risposta causato dalla guerra, ma soprattutto nell’inconfessabile verità della trattativa tra mafia ed alleati che permise all’organizzazione criminale di divenire tanto potente negli anni a seguire (a questo proposito vengono mostrate alcune immagini di un documento recentemente desecretato, il rapporto Scotten, dal quale Pif e Michele Astori hanno attinto per la stesura del soggetto), bisogna ricercare l‘intento narrativo di un bel film che, senza prendersi troppo sul serio, vorrebbe provare a far ridere e riflettere.
Ringraziamo lo staff del Cinema Massimo di Torino: qui il programma completo.