Il dominio dei Golden State Warriors, i giocatori più forti in circolazione, la prima stagione senza Kobe da vent’anni a questa parte. Domande, risposte, dubbi e curiosità sulla stagione NBA appena iniziata.
di Michele Sarda – Questa settimana comincia la nuova stagione del campionato di basket più importante, prestigioso e chiacchierato del mondo. Noi di OUTsiders webzine vorremmo provare a navigare con voi nel mare magnum dell’NBA, facendo un punto della situazione, affrontando i temi caldi prima che la stagione 2016-2017 entri nel vivo.
È tutto già deciso?
Se vi ritrovaste al classico Bar Sport con l’amico infognato di basket (tutti ne abbiamo almeno uno) quasi sicuramente la prima sua reazione – senza neanche parlare di vincitori e sconfitti – sarà quella di dirvi che l’anno scorso sulla carta la squadra più forte erano i Golden State Warriors (già campioni nel 2015), squadra che quest’anno, se possibile, è ancora più forte.
La stagione regolare NBA è fatta di 82 partite per ognuna delle 30 squadre, divise tra Eastern e Western conference. Le migliori 8 delle due conference accedono ai playoff che determinano il vincitore assoluto.
Per intenderci: i Chicago Bulls di Michael Jordan, nella stagione ’96-’97, vinsero 72 partite perdendone soltanto 10. Un record ritenuto imbattibile, fino all’anno scorso, quando i suddetti Warriors chiusero la regular season con 73 vittorie e soltanto 9 sconfitte, esibendo un gioco corale, manifestazione di un sistema con una filosofia solida e ben definita.
“Vuoi dirmi che i Warriors non hanno superstar nel roster?”, potreste chiedere. L’esatto opposto.
Draymond Green è il prototipo del giocatore completo del nuovo millennio. Capace di marcare avversari di ogni ruolo, di tirare da 3 con efficacia pur essendo un lungo, di passare la palla come se fosse un playmaker. Ha chiuso il 2015-2016 con 13 triple doppie, ovvero partite in cui ha raggiungo almeno 10 punti, 10 assist e 10 rimbalzi.
Klay Thompson, figlio d’arte, oltre ad avere un arsenale offensivo pressoché illimitato, ed essere un difensore di primo livello, ha una delle meccaniche di tiro più belle ed efficaci di sempre.
Stephen Curry, anche lui figlio d’arte, da un paio di anni a questa parte sta letteralmente cambiando il gioco dall’interno. Le squadre avversarie si ritrovano costrette a mandare due o più difensori a marcarlo a 9-10 metri da canestro, perché è capace di vincere le partite anche così.
Chi aggiungere a questa equazione? Un certo Kevin Durant (che nel video che trovate poco sopra militava nella squadra sconfitta). MVP (miglior giocatore) della lega nel 2014, 4 volte miglior marcatore della stagione, finalista nel 2012. In scadenza di contratto ha deciso di accasarsi proprio a Golden State per il 2016-2017.
Da quel poco che si è visto finora nella pre-season sembrano promettere bene. Personalmente ci ho messo qualche secondo a capire che non era un video gameplay di NBA 2k17 sulla Playstation.
Arrivati a questo punto, state già quasi tirando fuori il portafoglio: “Ok! Una squadra così, anche prima di Durant, avrà sicuramente vinto il titolo l’anno scorso, e con queste premesse, è sulla buona strada per vincerlo anche quest’anno! Facile! Andiamo?” – chiederete al vostro amico invasato. “No”, vi risponderà lui, già ordinando la seconda birra. “Niente è mai certo nell’NBA. Nei 18 anni che sono passati dalla fine della dinastia dei Bulls di MJ, hanno vinto 9 squadre diverse”.
The mistake on the lake
Cleveland ha fama di essere una delle città più brutte degli Stati Uniti, da cui il tenero soprannome “l’errore sul lago”. Ted Mosby, il personaggio protagonista della sit-com How I met your mother, viene sbeffeggiato più volte nel corso delle stagioni proprio per essere originario di Cleveland, e per il fatto che nessuna sua squadra di sport professionistico abbia conquistato un titolo nazionale in 52 anni. A interrompere questa maledizione ci hanno pensato i Cavaliers dell’autoctono LeBron James, vincendo la finale contro i Warriors per 4 a 3 (le serie ai playoff sono al meglio delle 7 partite) rimontando dall’1 a 3, impresa mai riuscita prima.
James, un giocatore che per doti tecnico/fisiche passa una volta sola nella storia del gioco, è alla settima finale in carriera di cui 6 consecutive, nonché al terzo titolo, dopo i due ottenuti nella parentesi coi Miami Heat (parentesi mal digerita dagli abitanti di Cleveland, con tanto di canotte bruciate). Nel 2015, nonostante prestazioni leggendarie, James aveva perso le NBA finals proprio contro i Golden State Warriors, anche se i suoi Cavs erano decimati dagli infortuni.
Mancava Kevin Love, e soprattutto mancava Kyrie Irving, il giocatore che quest’anno, dopo l’ennesima giocata pazzesca di LeBron, ha chiuso il discorso con una tripla da vincente puro.
End of an era
Nel frattempo il vostro amico impallinato di NBA ha iniziato a offrirvi da bere, per riuscire a rispondere al vostro “dimmi di più” in maniera soddisfacente.
Nelle interviste del dopo-partita, Irving ha parlato della capacità di prendersi il tiro decisivo senza pensare di poter sbagliare, un atteggiamento che ha definito “Mamba mentality”. Faceva riferimento a Kobe Bryant, o, come lui stesso si è soprannominato, “Black Mamba”.

Nel pronunciare il nome “Kobe” ha un sussulto. Si prende una pausa, e voi vi rendete conto che c’è della commozione vera nei suoi occhi. Lui guarda la birra, scuote la testa, alza gli occhi inumiditi e vi dice: “Niente sarà più come prima”.
Chi ha iniziato a seguire l’NBA negli anni ’90 (non proprio pochi, per due semplici motivi: Michael e Jordan) ha visto ritirarsi, tra la fine della scorsa stagione e l’inizio della prossima, tre delle più grandi leggende degli ultimi 20 anni di NBA.
Da quando i tre di cui parleremo sono entrati nella Lega, la grafica dei videogiochi ha fatto giusto qualche passo avanti. Anche la storia: i Seattle Supersonics, per esempio, non esistono più.
Kobe – È sempre più raro, non solo nel basket, che un giocatore spenda l’intera carriera con la stessa maglia. Kobe Bryant ha giocato per 20 anni con la maglia dei Los Angeles Lakers. Con loro ha vinto 5 titoli in puro stile hollywoodiano, tra decine di record infranti (uno su tutti: seconda prestazione individuale di sempre con 81 punti, follia pura), scandali giudiziari, gossip, litigi, voci di corridoio, e la scelta da vero uomo di spettacolo di annunciare il ritiro in tempo utile per un ultimo show in ogni arena.
Tim – L’addio più doloroso per chi scrive è sicuramente quello di Tim Duncan, 19 stagioni con i San Antonio Spurs, un carattere leggermente diverso da quello di Kobe e un ritiro arrivato senza esposizione mediatica, in piena coerenza con una carriera basata sull’understatement, sulla continuità lontano dai riflettori, sulla professionalità senza fronzoli. Ne riparleremo.
Poco swag forse, ma tanta sostanza. L’abito fa il monaco: l’abbigliamento di Tim Duncan negli anni.
Kevin – Come se non bastasse, gli appassionati hanno dovuto salutare anche Kevin Garnett, un giocatore soprannominato “The Revolution” per l’impatto che ha avuto sulla lega, sia sul piano tattico (un lungo di 2.11 dotato di un’agilità simile e capace di tirare così bene da fuori non si era ancora mai visto) che su quello manageriale (entrato in NBA direttamente dall’high school invece che passare per i canonici 4 anni di college, nel ’97 firmò il rinnovo contrattuale per 126 milioni di dollari in 6 anni, una cifra mai vista prima).
KG ha deciso di terminare la sua carriera dopo 21 anni passati soprattutto ai Minnesota Timberwolves, dove era tornato per fare da tutor a una pletora di nuove leve interessantissime (Karl-Anthony Towns su tutti) dopo la parentesi gloriosa ai Boston Celtics, culminata con il titolo del 2008.
Intanto siete entrambi al fondo della terza birra. Il vostro amico vi guarda. È irrequieto, perché vorrebbe continuare ancora per ore e ore, parlarvi di chi è appena stato introdotto nella Hall of Fame, di come alcuni cambi nel regolamento potrebbero influire sul ritmo di gioco, della continua crescita economica della lega e dei nuovi spaventosi contratti. Vorrebbe raccontarvi mille storie, mille ricordi, mille delle diecimila emozioni provate negli anni. “Facciamo così: prossima settimana ci scegliamo una partita. Vieni da me, porta da bere. Però se guardiamo quella che danno su Sky, quando passa la sigla di Marracash, io tolgo l’audio.” Noi invece facciamo così: ci riaggiorniamo alla prossima.