MITO SettembreMusica: padri e figli, classico e contemporaneo

L’aura mitica di MITO Settembre Musica si scorge da lontano: quest’anno anche il titolo richiama alla mente un elemento atavico e ancestrale come solo il legame padre-figlio può essere.

di Giorgia Bollati e Silvia Ferrannini  –  Nicola Campogrande, nuovo direttore artistico, ha scelto di improntare il percorso musicale del 2016 sulla condivisione intergenerazionale, per cercare di ampliare il piacere dell’ascolto e ammaliare i cuori inesplorati.

“Mi sembra si adatti bene a una manifestazione che ha una lunga storia alle spalle ma si sta aprendo al nuovo. E penso che la stessa apertura stia avvenendo all’intero universo della musica classica: amiamo il grande repertorio del passato, ma ci accorgiamo sempre di più che abbiamo voglia di ascoltarlo in modo inedito, fresco, arricchito dalla più bella musica degli autori viventi”

Campogrande sceglie di prendere per mano il pubblico e guidarlo passo per passo lungo il cammino che si snoda a partire dal titolo degli spettacoli, e nel pattern generale inserisce un discorso di apertura (più o meno efficace…) per ogni esibizione e, all’occorrenza, dei sopratitoli che fungono da guida attraverso le partiture.

La collaborazione produttiva tra MITO e Torinodanza Festival crea un equilibrio studiato e, al contempo, incantevole, tra terreno e universo celeste, tra concreto e mistico: ha inizio così un movimento verso le stelle. La danza aerea, la levità della musica e la suggestione che queste creano ci conquistano per l’impalpabilità della loro astrattezza, senza bisogno di staccare i piedi da terra e le mani dallo strumento.

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PATERNITA’ CONDIVISE

Spesso una delle migliori qualità dei figli è la capacità di inserirsi nei solchi tracciati dai padri e riscrivere interi repertori. Stokowski, Colla, Wallfisch e Cassadò aggirarono gli ostacoli dell’emulazione con l’ardimento caratteristico dei giovani e crearono esperienze d’ascolto del tutto nuove, dando prova del fatto che l’arte della citazione non è mai un vuoto iterare. Mario Brunello, direttore dell’Orchestra Filarmonica di Torino e violoncellista, ha riservato un’incantevole sorpresa per questo spettacolo: Schumann suona Schubert e commuove il pubblico con una chiusura magistrale.

HOLLYWOOD ANDATA E RITORNO

Morricone nutriva forti dubbi sulla possibilità di portare la musica per film nelle sale da concerto: MITO accetta la sfida e riporta in vita lo spirito di Richard Strauss, la cui lezione risuona in alcune delle maggiori opere dei compositori negli anni più verdi di Hollywood. Sicuramente è emozionante riascoltare all’Auditorium Rai il Don Juan e la Danza dei Sette veli di Salome, l’overture di Ben Hur e la celeberrima suite di Via col vento. Già per Godard il cinema era un tutto che rappresenta l’amore e il progresso: questa concezione quasi wagneriana dell’Ottava Musa sembra esplicarsi in tutto e per tutto in questo particolarissimo spettacolo; vero che nel complesso dell’esibizione si sono creati spazi morti e crepe di monotonia, rischio tutto sommato prevedibile quando si porta in una sala concertistica delle musiche pensate fondamentalmente come accompagnamento e sottofondo: forse era esattamente questo il sottile pericolo che intravvedeva Morricone.

FAMIGLIE SCANDINAVE 

Michala Petri, attraverso il fraseggio e il lieve ondeggiare del flauto dolce, sorvola la storia familiare di Bach padre e Bach figlia tra adagi, minuetti, allegri e andanti, approdando poi agli immaginari lunari ed elfici di Eduardo Lalo e Edvard Grieg, pensati come fratelli in un Ottocento tutto romantico e nostalgicamente rivolto a tradizioni folcloristiche dall’aura fiabesca. La grandissima musicista arriva poi in Danimarca e nelle Isole Faroe, con una naturalezza spontanea e sognante quanto i mondi che riesce a disegnare con il suo piccolo strumento: ed ecco la magia del Garden Party scritto di Christiansen che s’intreccia alla fanciullesca fantasia di Nielsen e ai suadenti tangos di Piazzolla. Dopo un simile viaggio il flauto dolce smetterà di essere solo lo strumento che si suonava alle scuole medie con i propri compagni di banco…

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ORCHESTRA DESTRUTTURATA

Il pianoforte di Andrea Lucchesini fa da guida all’intero spettacolo, ma vero fil rouge è lo strumento a fiato: partendo da Mozart, passando per Poulenc e concludendo con il famosissimo Carnevale degli animali di Saint-Saëns, l’Orchestra Giovanile Italiana si scompone in diversi gruppi tra oboe, clarinetto, fagotto, corno e flauto. Per il celebre brano finale, poi, si uniscono anche gli archi e le percussioni a cui funge da cornice la voce della narratrice Viola Brambilla, che a volte risulta poco credibile. L’esordio con Mozart colora la sala di note dolci e raffinate e la conclusione stimola la fantasia, creando, con un’esecuzione magistrale, un’atmosfera magica e scherzosa; un po’ angosciante e malinconico risuona invece Poulenc, che incarna pienamente il graffiante e penetrante spirito novecentesco.

L’OBOE E I SUOI FRATELLI

Non si tratta tanto di un concerto, quanto di un flirt: un incontro tra un’arpa e uno strumento a fiato, oboe, oboe d’amore o corno inglese, magicamente orchestrato da Luca Stocco e Elena Piva, rispettivamente primo oboe e prima arpa dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano. All’interno della suggestivissima e misteriosa chiesa di San Pietro in Vincoli a Cavoretto, i due artisti adattano famose composizioni ai loro strumenti, partendo dal barocco Louis Couperin e dal nipote François e toccando il romanticissimo e profondo Notturno op.7 di Franz Joseph Strauss per poi passare al sapore di luce del figlio Richard Strauss. L’atmosfera si fa più celtica con le brevi composizioni Folk di Williams, fino a quando la melodia si trasferisce in Francia dove partendo dal più moderno e sensuale Ravel e passando per il poetico e sentimentale Fauré, si giunge infine al maestro Saint-Saëns. In un ambiente intimo e magico, si compie un viaggio fuori dallo spazio e dal tempo, guidati dalle note della sublime esecuzione dei due professionisti.

PURO SCHUMANN

Attenzione tutta concentrata sulle mani di Beatrice Rana e sulla bacchetta di Riccardo Chailly: questo il succo dello spettacolo. La pluripremiata pianista ventitreenne ha saputo attirare su di sé tutta la luce del Teatro Regio, incantando gli occhi e le orecchie del pubblico con le sue dita che quasi accarezzavano i tasti del pianoforte. Fulcro del palco, Chailly ha diretto in modo appassionato e preciso la perfetta Orchestra Filarmonica della Scala all’interno di un percorso che, a partire dalla famosa ouverture del Manfred, ha toccato le composizioni più grandi e celebri di Schumann. Un’esecuzione impeccabile e maestosa, ma, complice forse l’imponenza del teatro e l’alterigia che aleggiava nell’aria, solo discretamente coinvolgente e vagamente asettica. Inquadrabili, poi, all’interno dell’ottica di Campogrande i sopra-titoli: avrebbero dovuto avvicinare alla musica classica anche i profani, ma forse, in un pubblico selezionato come quello del Regio, l’effetto ottenuto è stato tutt’altro.