[REPORT+FOTO] Calcutta lo stesso | Villa Ada

Il singalong di Calcutta apre prepotentemente il Festival “Roma Brucia”. L’imperfezione delle giornate comuni pacifica la Roma poliforme. Cellulari in tasca, solo accendini anni ‘90. 

di Chiara Alberta Santucci  –  Mainstream. È il titolo dell’ultimo album di Calcutta, è la parola che riverbera incessantemente durante l’attesa dei minuti che separano l’esordio del cantautore sul palco. Un pubblico eterogeneo ad accogliere Edorardo D’Erme , 26 anni e una vita trascorsa a Latina, un pubblico di occhi attenti e vigili, di danze estive, di striscioni, di cori suburbani. E’ tutto molto pop, nell’accezione embroniale del termine, è il sentimento di gradimento generale, popular. Roma brucia per l’appunto, così il nome del Festival inaugurato ieri sera in una Villa Ada eclettica e ardente per l’occasione, così gli spettatori: impaziente e passionali.

Gli animi opposti della platea sembrano convergere nella personalità ondivaga di Calcutta, gli angoli della Roma dissimile si stringono la mano nell’esultanza degli incisi. Attitudini variegate aspettano di completarsi e scontrarsi nei ritornelli: capelli rosa, tagli retrò, camice compunte, brillantini, volti di adolescenti, sguardi critici di universitari.  Quella di Calcutta è una musica d’insieme, è il grande mistero delle canzoni che si fanno inconsciamente memoria: una melodia eufonica da intonare con il tuo capo, odiato poche ore prima. È questo il mainstream? Edoardo sale sul palco, con la sua fiera e tronfia apatia, ricorda quella di Luca Carboni, il quale con occhiali e voce roca afferma perentorio “Sono sempre Luca lo stesso”.

Calcutta sembra essere lo stesso, come Luca Carboni, senza andamenti “pagliettati” e discorsi affettati per l’occasione. “Un altro brano molto carino”, queste  le parole per presentare i pezzi, nessuna citazione paracula, men che meno filosofica. La voce è timida e pretenziosa allo stesso momento, svogliata e provocatoria, simile a quella di un bambino sornione che ammette di aver “Fatto una svastica in centro a Bologna ma era solo per litigare”(Gaetano). I finali sono poco marcati, il pubblico li conclude in un singalong anni 90 e l’abbraccio in musica diventa virale.

Le diverse facce della Roma poliforme  si amalgamano in un quadro di empatia. Tutto molto pop per l’appunto. Se Mainstream è il suo album, di certo il suo portamento non è seducente e furbo, l’esuberanza  sgorga dal verismo delle canzoni, d’altronde la stessa apatia è vitalità in musica, è la noia condivisa del “Mi annoiavo alle feste mi annoiavo alle cene”(Gaetano).

Verismo quello che si rintraccia nell’attacco di Frosinone, una canzone che non aspetta di essere suonata per esprimersi:  senza incipit, come in “Luca lo stesso” di Carboni, solo due accordi diatonici di piano, e poi l’esordio inflessibile“Mangio la pizza e sono il solo sveglio in tutta la città”. Il frettoloso prologo non fluisce in nessuna rivoluzione se non quella più grande di “tornare a casa a guardare un film”. Le piccole rivoluzioni di tutti.

Quelli di Calcutta è un mainstream scovato nella libertà di “lavare i piatti senza svento”, è una musica della porta accanto, un paradossale mainstream venuto al mondo nello studentato di Spinaceto e in una vita vissuta a Latina. Un mainstream di cultura subalterna, di sapone per i piatti e di panchine senza braccioli.

Calcutta è la domenica senza filtro, è la musica compagna e consolatoria, svogliata e amica.

EMPATIA. Un’emozione definita “lost in translation”, persa nella traduzione. Non la spieghi l’empatia, la percepisci, e Calcutta non fa nulla per essere empatico. L’empatia la afferri nell’acustica sommessa di “Le barche”, una ballad malinconica che placa gli animi inquieti del pubblico, una fiaba di pirati e oceani. E ti lasci cullare. Non mancano hit più “catchy”  ed è subito “Oroscopo”, i ritornelli da ombrellone si scontrano nei paradossi dell’incipit: “Sono uscito stasera e non ho letto l’oroscopo”, tormentone sì, ma da vivere come viene, e Calcutta è l’amico con il quale non programmare le uscite.

DOMENICA. Irrompe nella musica di Calcutta. La domenica è un giorno mistico. È il giorno in cui la musica ha il diritto di oscurare il lunedì che verrà, il sabato passato, ha la pretesa di sublimare la noia in fantasie, la domenica è svogliata e boriosa. E Calcutta è la domenica senza filtro, è la musica compagna e consolatoria, svogliata e amica.

MACCHINA. Calcutta lo immagini seduto accanto a te, in una sfigata e nebbiosa sera d’inverno o scaltra e torrida giornata estiva, raccontarti del fine serata, con una maglione extralarge o asciugandosi il sudore.

I resoconti del fine serata sono ermetici e intimi, concederli è un lusso per i migliori amici, Calcutta lo è . È  l’amico da consolare, è il ragazzo dalla sincera impertinenza dello “Stai a dieta da una vita e non ce la fai più”(Limonata).

ROMA. Sulla sponda del cantautorato romano, Calcutta restituisce i suoni sommessi delle periferie, lontano dai cocktail e dalle reflex raccontate dai Cani, distante dall’impetuoso distorsore nella voce di Contessa, ma anche dalla spensieratezza  dai colori surf-garage degli Wow, Edoardo rivela gli ambienti crepuscolari e surreali dei fine serata periferici, sfumati e pigri, fotografa il folkore di personaggi da autobus, gli striscioni provinciali tra le intangibili architetture di San Pietro. L’ispirazione nei testi è l’ossimoro innato di Roma. E la realtà cosi fisica produce insinuature surreali, oserei dire alla Alberto Ferrari  quando “Milano è un ospedale”(Milano).

Il verismo delle canzoni coincide con gli arrangiamenti lo-fi: suoni da jam session e strascichi di finali lasciati liberi, scarni si ma potenti nei giri irruenti dei bassi  e nelle scale a “climax”degli incisi, emblematico il brano “Frosinone”. “Io  ti giuro che torna a casa e non so di chi” nasce come una storia timida e imbarazzante per tramutarsi in un‘ammissione di colpevolezza da gridare.

“Troppo gentili veramente”, il concerto si sta per concludere ed Edoardo irrompe con frasi sbandate: “Scusate ma il mio cd dura a mala pena mezz’ora”. Sbandate e poco canoniche come la sua musica, partorita da vacue soddisfazioni provinciali del “Frosinone in serie A”, da un romanticismo sui generis :”Vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo” (Del Verde), da scatti di volti comuni e impacciati come quello di Gaetano, da pretese minime di “andare a Peschiera del Garda per fare un bagno”(Le Barche).

È una musica che non ha vanità, è la fotografia di pareti sverniciate di un qualsiasi bar, dei cruciverba della quotidianità , è lo smog misto a skyline dei balconi di periferia. “Non è il mio genere ma a me piace”, cosi la mia amica a fine serata recensisce il concerto.  E piace perché è la nonna  di tutti ossessionata da “leggere il giornale con Papa Francesco”.

Bis di “Cosa mi manchi a fare”. Acustica scordata e voce graffiante a tratti. È di nuovo abbraccio nell’imperfezione. Gli accendini disegnano fiamme innocue su un cielo torrido da cantare, i cellulari in tasca, nessuna registrazione, la memoria è impeccabile sulle verità di Calcutta.

Photogallery a cura di Andrea Rossi