Shabazz Palaces: sabbie mobili e polvere cosmica | Astoria

Unica data italiana per il duo “avant-hop” americano che si conferma un’entità anomala, atipica, criptica e difficile da catalogare.

Gli Shabazz Palaces tornano all’Astoria a un paio d’anni dall’ultima apparizione nel basement, quando – nel febbraio 2012 – portavano in dote il fulminante esordio discografico Black Up, che mandò in orbita la loro carriera. Il melting pot di San Salvario resta la cornice ideale per l’hip hop meticcio del duo di Seattle. Ancora di più, forse, in un uggioso martedì sera di fine novembre, quando il marasma del weekend cede il passo ad un silenzioso brulichio e le viuzze del quartiere si svuotano in un’atmosfera rarefatta ed irreale. La musica degli Shabazz Palaces infatti si é fatta sempre più metafisica, onirica e indecifrabile. E anche se questa volta non spingono materiale fresco di pubblicazione ogni trip a bordo del loro tappeto volante regala scorci inediti. Peccato allora che il “turno infrasettimanale” abbia scoraggiato molti dal parcheggiare il cammello in via Berthollet e palesare un sold out che sulla carta sembrava cosa fatta. Sarà per la presenza ingombrante del Torino Film Festival? Si sta ancora smaltendo l’abbuffata elettronica del Club To Club? Mistero.
Ai (fortunati) presenti invece capita di vedere Ishmael “Palacel Lazaro” Butler e Tendai “Baba” Maraine sprofondare nella pelle dei divanetti della casbah dell’Astoria davanti ad un thè caldo, e poi buttar giù alla goccia uno shottino alcolico poco prima di salire sul palco.

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Assistere ad una performance degli Shabazz Palaces è come entrare in una centrifuga ma a ralenti. Può essere totalizzante e altresì ostico. Nel calderone della black music futurista contemporanea sono forse i meno intellegibili. Non arrivano dritti in faccia come i Death Grips o iClipping (questi ultimi colleghi di scuderia nella Sub Pop), non hanno il groove dei The Internet o gli anthem degli Young Fathers.

Nonostante l’outfit afrofuturista, più che sciamani, gli Shabazz Palaces sono degli alchimisti. Più che di mantra rituale, i loro bozzetti psichedelici vanno a (de)formare uno stream of consciousness, frammentato e criptico ma non per questo meno intenso. Manipolano minuziosamente loop e vocals effettati, dividendosi tra laptop e pad controller come stessero lambiccando provette con pozioni e filtri dai poteri occulti. Il rap di Lazarus è ieratico e al contempo schizoide, misurato eppure in qualche modo fuori controllo. Baba detta il ritmo, tra batteria minimale, percussioni tribali e assoli di mbira (lo strumento della tradizione africana che ultimamente abbiamo visto utilizzare anche a Luca T. Mai nei Mombu) sulle orme del padre polistrumentista.

Si lasciano andare a qualche stralunata “coreografia” (giravolte e movimenti delle mani e delle braccia… una specie di Asereje primitivista?!) ma non sono dei gran chiacchieroni, anzi sono piuttosto schivi e non parlano quasi mai. Persino quando si rivolgono al fonico per un semplice dettaglio tecnico sembra che i due siano pronti a creare un pezzo trasfigurando il linguaggio in musica e campionando la richiesta “Can we turn the drum machine up?“. Ripeto, è complicato inquadrare questi due astronauti tuareg, che sembrano l’ensemble jazz in un film di Spike Lee ambientato tra una stazione spaziale, l’Antico Egitto e l’Africa Nera. E alla fine resta la voglia e la curiosità di capire dove ci porterà nel futuro prossimo questa New Black Wave.

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