[REPORT + PHOTO] Zanne Festival: explosions in the sky | Parco Gioeni

Zanne Festival è giunto alla sua terza edizione e il Parco Gioeni di Catania nelle quattro giornate in programma apre le sue porte a band storiche e ad altre appena nate sotto i migliori auspici.

di Martina Manoli – L’aria di Zanne Festival si comincia a respirare già dalle zone limitrofe al Parco Gioeni: la parte alta del palco con le sue luci rotanti svetta in alto, affacciandosi sul traffico in tilt, il grande manifesto colorato che porta il nome dell’evento dà il suo fiero benvenuto e la corrente di un autentico fiume umano conduce all’area live. Dopo una massiccia propaganda e numerosi assaggi musicali offerti alla città ogni sabato, nel mese che ha preceduto l’evento, finalmente il 16 luglio il festival apre i battenti, e a dare il via all’attesissima terza edizione salgono sul palco i meritevoli vincitori del contest Nuove Zanne: sono i Wow! Signal, tre ragazzi pugliesi poco più che ventenni che si fanno coraggiosamente carico dell’oneroso compito di tagliare il nastro inaugurale di un palco che avrebbe visto alternarsi, quel giorno e quelli seguenti, artisti la cui popolarità riempie le arene (vedi FFS) e prosciuga i botteghini a pochi minuti dall’apertura degli stessi (è il caso di Four Tet).

Verso Zanne

Verso Zanne

 Gli energici loop riverberati che hanno conquistato il pubblico delle preview danno il benvenuto – e il bentornato – agli avventori, mentre il Parco si popola in ogni dove. Dopodiché la line up compie una brusca virata e Zanne gioca il suo primo asso: cinque tipetti di bell’aspetto, che si schierano su un’unica linea come le figurine di un catalogo d’alta moda, chitarre-tastierine-violini a completare la scenografia. Sono i Balthazar, che stregano la platea con le loro sexy vibes e seducenti cori a cinque; ma oltre le voci conturbanti e i ciuffi biondi c’è anche dell’ottima sostanza. Un rock-pop fresco e ben strutturato, un sound easy listening di qualità che trascina un pubblico non più tanto impaziente di vedere salire sul palco gli headliner del Day 1. I Balthazar escono di scena mentre migliaia di persone cantano all’unisono, ripetutamente, come un mantra occidentale, le ultime parole del brano “Blood Like Wine” lasciando il pubblico ben riscaldato per il più grosso nome in cartellone. Difatti, basta solo che gli FFS imbraccino gli strumenti e prendano posto per scatenare urla e applausi, ma la vera bomba di approvazione scoppia al sentir pronunciare ad Alex Kapranos una semplice parola: sintetica, efficace, polisemantica: “Minchia!”. La formula FFS è forse il modo migliore per apprezzare appieno sia il gusto decisamente disco anni ’80 degli Sparks sia l’indie-brit-rock dei Franz Ferdinand, che rischiava di diventare stantìo col tempo. Il risultato della commistione è un glam rock leggermente patinato, ma mai stucchevole. La performance è briosa e divertente, grazie soprattutto al dimenarsi dei due band leader, Kapranos e Russel, anche se a catalizzare l’attenzione del pubblico è la bislacca figura dell’altro fratello Mael, Ron, occhialino tondo e cravatta, sguardo funereo, non fa una piega, seduto dietro la sua tastiera. È per questo che la sua inaspettata danza forsennata è forse il momento più divertente del Festival.

Verso Zanne

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In netto contrasto con il Day 1, giorno degli avventori occasionali, il Day 2 è la data degli abbonati, degli aficionados. La luce del giorno deve ancora del tutto spegnersi quando gli albionici Ultimate Painting vengono illuminati dai riflettori. Seguono circa venti minuti di rock molto good old sixtiescon una spiccata propensione al blues, ma nonostante il nome che hanno scelto, gli Ultimate Painting si rivelano una parentesi piuttosto incolore. Le cose non si mettono tanto meglio con il secondo nome, i Dead Brothers, manica di loschi figuri mascherati da medici della peste capitanati da un cantante/teatrante allucinato. L’atmosfera creata da questa piccola banda dark di paese vorrebbe essere cupa e suggestiva, ma risulta artificiale e la loro musica da soundtrack burtoniana è poco creativa. Molto più gradevole il loro live unplugged improvvisato in mezzo al pubblico durante il cambio palco, se non altro era qualcosa di autentico. La giornata assume completamente un altro mood con il live indemoniato degli A Place To Bury Strangers: pesante, arrabbiato, a tratti volutamente acerbo e snervante. Non mancano dimenamenti convulsi e strumenti frantumati, il tutto mentre le corde della chitarra di Oliver Ackermann gemono portate allo stremo e gli amplificatori accatastati l’uno sull’altro mettono a dura prova l’orecchio dell’ascoltatore. Insomma, un live rock da manuale, che nasconde un finale a sorpresa: anche gli APTBS abbandonano il palco e concludono la performance tra la folla con un dj set altrettanto duro e martellante. Una maniera del tutto insolita questa di preparare il terreno alla solenne messa profana degli headliner Spiritualized, il cui sound pieno e articolato invita il pubblico a viaggiare nei recessi più reconditi della mente, mentre figure astratte dai colori sgargianti e palloncini illuminati pervadono l’atmosfera. Qualcuno tra gli astanti paragona Jason Pierce e seguito a blasonate band prog rock del passato (leggi: Pink Floyd), accostamento forse un po’ audace, ma del tutto coerente con le suite psichedeliche e i loop alienanti scanditi dai synth. Terminato pure l’encore durato ben venti minuti, il pubblico saluta gli Spiritualized un po’ più calorosamente di come non li avesse accolti.

Verso Zanne

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Il Day 3 è il trionfo dei suoni artificiali, la giornata più groovy del festival. Assestano il primo colpo iCamp Claude, con i loro riverberi immaginifici e l’eterea delicatezza della voce di Diane Sagnier. A seguire i Peter Kernel, trio multietnico-svizzero che si diverte a stuzzicare il pubblico e il cui post-punk edulcorato si discosta dall’atmosfera della giornata, ma è tuttavia una deviazione gradita. A questo punto si ritorna sulla carreggiata con una vera e propria chicca della line up di quest’anno, gliHookworms. Il chubby frontman della band è forse una delle personalità più singolari tra quelle che hanno calcato le assi del palco del festival: è il motore di un macchina spinta al massimo, che suona un electro-noise isterico e ipnotico dove la voce è un elemento destabilizzante ma essenziale e caratterizzante. Quando escono di scena, il pubblico è stordito ed elettrizzato. A quel punto solo un ospite della levatura di Luke Abbott poteva tenere alto il tenore della serata. E non delude le aspettative. I suoi pattern sono morbidi ma ritmati e attraggono il pubblico sotto la console, mentre si scioglie in movimenti disordinati trascinato dall’onda di suono. Quasi senza soluzione di continuo, Abbott cede il posto a Four Tet e l’arena è in visibilio. Mette su il suo ultimo full lenght, “Morning/Evening”, invertendo l’ordine d’esecuzione delle tracce: dal tramonto all’alba anziché dall’alba al tramonto. Il tocco inconfondibile dell’headliner londinese si sente sin dai primi beat, ma la performance subisce un rallentamento, a causa di un difetto tecnico. Il pubblico, tanto affabile nell’accoglierlo, si dimostra stupidamente ostile nei confronti dell’artista, che nonostante la villania e diversi problemi con la strumentazione porta avanti un live set magistrale, riconquistando subito la simpatia degli astanti. Il fiume sonoro che sgorga dalla console porta via con sé ogni pensiero, e nella testa rimbombano i bassi ben piazzati e beat d’ogni genere. Four Tet non concede bis ad un pubblico immeritevole e la sua chiusura è definitiva. Le spade luminose della scenografia si spengono e l’arena si trasferisce al bizzarro “Silent Party” dal lato opposto del Parco, ma questa è un’altra storia.

Verso Zanne

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Il Day 4 propone la line up più invitante e ricercata. I Jacco Gardner danno il via all’ultima corsa proponendo con presenza di spirito un dream pop venato di psichedelia, orecchiabile e sofisticato, qualcosa come gli MGMT ma più strumentale. Terminata la loro performance, si prospetta uno scontro tra titani, ché questa giornata sembra avere ben due headliner: Timber Timbre e Godspeed You! Black Emperor. I Timber Timbre salgono sul palco per primi accolti dall’ovazione di un pubblico fremente. La voce tenebrosa à la Nick Cave di Taylor Kirk è il motivo per il quale buona parte dei presenti ha partecipato al Day 4. Le atmosfere cupe e riflessive, distintive della discografia dei cinque canadesi, acquisiscono vigore in chiave live, divenendo le sei corde più dure e incisive nel sottolineare i passaggi più ritmati. Uno spettacolo che da solo sarebbe valso il prezzo del biglietto, a giudicare da come la folla chiamava a pieni polmoni Kirk e compagni per il bis, ma la scaletta segue un regime molto rigido e dopo qualche minuto, a luci spente, su un lungo, continuo, profondo tappeto di suono, entrano i Godspeed You! Black Emperor. Ed è così che si svolge la performance, nella penombra, illuminata appena dalla flebile luce dei visual in bianco e nero. è un momento di profonda riconnessione con se stessi: niente luci strobo, palloncini per aria o outfit all’ultimo grido. Non è uno spettacolo, è una meditazione guidata dalle note di chitarra, dall’arco che sfrega disperatamente le corde di violino, dai pattern incalzanti del set di percussioni. Ognuno dei musicisti sul palco sembra seguire un proprio filo, così come ogni spettatore viaggia trasportato dalla propria corrente immaginifica, ma il tutto ritorna sempre a quadrare in momenti di lucidità e acuità musicale perfetti, che richiamano grandi ovazioni da un pubblico obnubilato dal misticismo dell’ordito sonoro intessuto con maestria. Uno degli ultimi visual in formato analogico proiettati da Karl Lemieux reca una scritta fortemente evocativa e densa di significato: “HOPE”, speranza. Ed è con questo sentimento nel cuore che la folla nell’arena si dirada, e probabilmente è la stessa forza propellente che si agita sotto la superficie di Zanne Festival: la speranza di scommettersi anno dopo anno sempre di più, di osare ad andare un po’ più oltre, e i presupposti, le competenze e la voglia non mancano di certo. La speranza che i grandi nomi non si fermino in Capitale, ma abbiano il coraggio di andare un po’ più giù; che “basso” sia solo una coordinata geografica e non un criterio di giudizio del livello di cultura musicale del Sud. Lunga vita a Zanne Festival, dunque, e che possa in futuro darci mille di queste emozioni!

Galleria fotografica di Vittorio Montauro.

(22/07/2015)

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