Questa non è una classifica ma più un brainstorming. Una selezione in libertà di dischi che abbiamo consumato in questi primi mesi dell’anno.
Westside Gunn – “FLYGOD”
Finalmente, dopo un paio di uscite carbonare, nel 2016 Gunn riesce ad incanalare la sua poetica in un full lenght; e lo fa in grande stile: FLYGOD esce direttamente per la label che nel frattempo ha fondato lui stesso (Griselda Records) e vanta una valanga di featuring sia al mic (da Action Bronson a Roc Marciano passando per Danny Brown) che in cabina di regia (buona parte delle basi sono di Daringer ma c’è spazio anche per Apollo Brown e The Alchemist).
Gunn si candida a tormentare le nostre notti (insonni) estive. Tappeti sonori minimali e dark, per lunghe suite impregnate di funk e soul (talvolta con l’assenza di percussioni a coadiuvare il senso di vertigine nel prolungato flusso di coscienza) e un timbro vocale davvero difficile da inquadrare e catalogare – che rischia ragionevolmente di polarizzare un po’ le opinioni, ma non può lasciare indifferenti. Il risultato? Un sound molto street e a suo modo estremamente classy, qualcosa di affine e al contempo differente dalle cronache from the ghetto dell’inarrivabile Pusha T e dall’horrorcore virato arty della ciurma di Tyler The Creator. Sulle tracce di FLYGOD aleggia un’atmosfera cupa e fumosa, narcolettica e straniante: come una sigaretta infinita tra il sonno e la veglia, il sogno e l’incubo. Buona notte?
Questa volta – complice l’apporto fondamentale in fase produzione di Mario Conte e di un inedito Colapesce – Antico approda a qualcosa di diverso rispetto a quella poliritmia animalesca e ancestrale che è il centro del suo universo musicale. Applicando un filtro elettronico a composizioni per lo più scarne ed essenziali giocate sulla dicotomia tra voce e pelli (altresì dotate di un pathos inquieto e al contempo beffardo), l’insospettabile eroe col tamburello aggiorna la tradizione sicula ai tempi di art-rock e drone music riuscendo ad avvicinare mondi lontani: Capossela e gli Animal Collective, Pet Sound e Crêuza de mä. Una musica colta e popolare, libera in tutte le direzioni, che forse arriva veramente “fino a dove il cielo e il mare si fondono, e il sole lascia posto alle stelle, mentre il vento, zitto zitto, soffiando fra le fronde, dà origine a inedite armonie”, come declama Antico in Di cu sugnu.
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THE NECKS – “Vertigo” (uscito a novembre 2015)
VEKTOR – “Terminal Redux”
Concept sci-fi, saliscendi prog, riff caricati al plutonio, nebulose strumentali: dopo due dischi già più che convincenti, i Vektor aggiornano (quel tanto che basta) la lezione di Voivoid e Megadeath, dimostrando ancora una volta di padroneggiare la materia e confermandosi al top tra le metal band contemporanee. Oltre che impressionare, però, riescono addirittura a stupire. Basti pensare al gospel del paranormale sul finale di “Charging The Void”, all’entropia magistralmente controllata di “Collapse” o al trittico semplicemente monumentale formato da “Ultimate Artificer” – “Pteropticon” – “Psychotropia”. La sinfonia metal dell’Apocalisse dagli altoparlanti di un panzer intergalattico.
Jayhawks – “Paging Mr. Proust”
Chi si ricorda “Waiting for the Sun”, quella gemma pop che apriva il terzo e forse più importante album della band alt-country americana? Beh, i Jayhawks sono tornati. Hanno l’età dei miei genitori, ma questoPaging Mr. Proust suona più fresco di tanti altri loro lavori: un disco che potrebbe tranquillamente essere spacciato per un Best of, anche perché i singoli non mancano di certo – “Quite Corners & Empty Spaces” potrebbe essere presa in esame come esempio di canzone perfetta. Allo stesso tempo la band non guarda solo al passato – vedi gli spunti psych-noise di “Ace”: la produzione di un certo Peter Buckavrà fatto del bene. E poi che bello riascoltare i cori di Mike Mills in “Leaving the Monsters Behind”.
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Car Seat Headrest – “Teens of Denial”
Storia pazzesca: Will Toledo ha 23 anni; negli ultimi 5 anni della sua vita ha scritto 13 album. LaMatador annusa il talento del giovane americano e pubblica Teens of Denial, ultimo lavoro dei suoi Car Seat Headrest. Immaginate gli Strokes più versatili e con scazzo decisamente più sarcastico, i Beach Boys filtrati dalla bassa fedeltà di Pavement e dalle chitarre di Pixies e Built To Spill, Un Beck che rilegge i Neutral Milk Hotel in chiave punk, fregandosene del minutaggio pop.
Un disco davvero incredibile, non inferiore comunque all’intera discografia del prolifico paladino del “name your price” su Bandcamp. Se avete un mese di tempo ascoltate tutto quello che trovate, non ve ne pentirete. Se avete pochi minuti (12, in realtà), provate con The Ballad of the Costa Concordia, digitate anche “lyrics” su google e godetevi un capolavoro di scrittura.
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In Italia, ANOHNI suonerà in data unica nazionale martedì 12 luglio al Flowers Festival di Collegno.
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Album da incorniciare per il quintetto di Stoccolma, che torna a colpire durissimo con un full lenght tutto rabbia e atmosfera. Dieci tracce che riportano alto il nome di una delle band capofila di quel “blackened hardcore” mai esploso a livello mainstream ma sempre rimasto in quel sottobosco di rabbia e sonorità da jeans skinny e giubbotto di pelle. “Opaque”, “Drain” e “Turn Cold” le tracce che più lasciano il segno.
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Giants – “Break the Cycle”
Stranamente mai usciti a livelli medio-alti, i Giants entrano nell’orbita della Holy Roar Records e ribaltano la situazione, sputando fuori 13 canzoni di primissima qualità. Se si potesse coniare un termine, si potrebbero definire i Giants come “punkore”: cori in pulito alla Bad Religion, attitudine più vicina al punk rock che all’hardcore moderno, ma voce principale sporca e qualche parte in 2step ricollegabili agli ultimi 5 anni di questo genere. I singoli “Against the Grain” e “I’ve Been Low”, oltre ad “Another Day, Another Year” rendono “Break the Cycle” un album con i fiocchi.
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Swamps – “Mentally Imprisoned”
Tra la moltitudine di band hardcore statunitensi con una certa passione per il metal di provincia becero e cafone, prevalgono senza dubbio gli Swamps. Con all’attivo ormai diversi lavori (“Corroding Kings” uscì nel 2011), i cinque di Springfield buttano in pista 12 brani di puro menefreghismo, nei quali i tempi hardcore-punk classici sono ridotti a zero, a vantaggio di un groove più adatto a una rissa tra motociclisti che a un pit da poser. Impatto live da Gatling montata sulla macchina, in cui si fanno spazio “Blood Loss”, “War/Peace” e “Sea of Snakes”. Ascolto imprescindibile per chi non ha paura di sporcarsi a un concerto.
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Vow – “Kind Eyes”
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_selezione di Edoardo D’Amato
Esperanza Spalding – “Emily’s D + Evolution”
Basta dare uno sguardo alla copertina dell’album per capire quanto Esperanza abbia sentito l’irrefrenabile esigenza di fare un salto: via la sua “zazzera” afro per far spazio ai dread e a occhialoni xl. Restava da capire se il suo fosse un salto nel vuoto. Risposta: Esperanza sapeva quello che stava facendo. Innanzitutto bisogna riconoscere che il suo ultimo disco è un atto di coraggio: non era facile recedere per un momento l’indissolubile legame con il mondo del jazz tradizionale mischiato con il soul e l’r&b di una Nina Simone, e sfornare quindi un lavoro totalmente nuovo per la sua comunque già onestissima discografia. Certo, il jazz e la black ci sono ancora, ma più come un richiamo quasi dovuto: è presente l’Esperanza che vinse a sorpresa il grammy nel 2011, ma insieme a quella ci sono anche il funk dei Parliament, l’amore (mai nascosto) per Erykah Badu e soprattutto uno sguardo al mondo “hipster” pitchforkiano sia nel nuovo look che proprio nell’approccio compositivo. Il tutto unito da una emergenza comunicativa, che a onor del vero in certi momenti diventa quasi foga. Emily’s D, un disco rock. E ci fa muovere dannatamente bene.
The Last Shadow Puppets – “Everything you’ve come to expect”
E’ bellissimo avere un debole per Alex Turner. Non ne puoi uscire, e in fin dei conti non vuoi, perché l’icona di Sheffield non sbaglia mai niente. Uno stile pazzesco, una penna sempre originale e un sound ormai pienamente riconoscibile: tutto quello che tocca Turner, diventa oro. Anche il secondo episodio dei Last Shadow Puppets, progetto che ormai definire “collaterale” rispetto agli Arctic Monkeys risulta un tantino limitativo, non è da meno. Passati otto anni dall’esordio “The age of understatement” , Turner e il socio Miles Kane hanno fatto parecchia strada: da sbarbatelli poco più che ventenni, sono diventati due navigati chansonniers pieni di classe. Basta ascoltare già l’apertura di “Aviation” per capire le direzioni di questo secondo disco, che poi si rivelano a fondo nella title track, dal gusto piacevolmente beatlesiano. Attesa alle stelle per la resa live di questo sophomore.
Francesco Motta – “La fine dei vent’anni”
Rivelazione assoluta. Ci si chiede ancora se questo sia effettivamente il disco d’esordio di Francesco Motta. Risposta: si. Certamente le esperienze pregresse con i Criminal Jokers (come co-fondatore) e quelle sui palchi insieme a Zen Circus, Pan del Diavolo e Giovanni Truppi hanno aiutato molto, ma “La fine dei vent’anni” è un inizio inaspettato quanto bellissimo. Sotto la supervisione del sempre ottimo Riccardo Sinigallia, Motta realizza un lavoro impeccabile, sia dal punto di vista dei testi (ok, i vent’anni sono finiti, ora cerchiamo di capire come proseguire senza troppi piagnistei) che da quello prettamente musicale: c’è il rock nel “Del tempo che passa la felicità”, il folk ne “La fine dei vent’anni” e perfino echi etno e tribali in “Prenditi quello che vuoi”. Ma soprattutto, questo è un esordio punk, nel senso che i racconti di Motta su ciò che circonda il tessuto urbano sono diretti, senza filtri. Riesci davvero a cogliere le urgenze comunicative di chi canta. Una graditissima sorpresa dal mondo indie italiano.
DIIV – “Is the is are”
Non era facile confermarsi a grandi livelli per il gruppo di Brooklyn dopo la perla “Oshin”. Invece Zachary Cole Smith riparte dai punti fermi dell’esordio per lavorare su di un disco che nel prodotto finale conta ben 17 tracce e dura più di un’ora: una sorta di unicum rispetto a quanto accade solitamente nel mondo indie internazionale. L’impostazione e l’approccio sono sempre gli stessi: laCaptured Tracks, il cantato al limite del labiale, lo shoegaze, il kraut e i riverberi delle chitarre di Smith. C’è anche spazio per un’incursione di Sky Ferreira, crooner femme fatale, nel brano “Blue Boredom (Sky’s Song)”. Tirando le somme: un disco che scivola giù come un long island, senza niente di nuovo ma con una formula che funziona sempre. Se poi a proporla sono i DIIV, scende che è un piacere.