La nuova commedia romantica a tinte noir di un autore che – nonostante le buone premesse, la pregevole confezione e le ottime performance attoriali – tende ormai a ripetersi.
di Isabella Parodi – Lui (Joaquin Phoenix), il professor Abe Lucas, uomo di mezz’età disilluso dalla vita, un cinico pessimista permanentemente depresso che non sa più godere in alcun modo della joie de vivre e si crogiola nell’indolente ripetitività della sue lezioni di filosofia; lei (Emma Stone), la giovane studentessa Jill Pollard, fresca, pimpante, un convenzionalissimo spirito libero a caccia di esperienza di vita. Come potrà mai andare a finire?
Non servono di certo i titoli bianco su nero retrò a farci capire che siamo in un film di Woody Allen, perché gli ingredienti ci sono tutti. Una coppia anti convenzionale o in qualche modo illecita, tanto cinismo, filosofia europea, un omicidio giustificato e leggere melodie blues (non jazz, stavolta) che si ripetono con impertinente ossessività. E poi quell’immancabile affascinante bla bla bla Alleniano che ad ascoltarlo ci fa sentire tanto ordinari, portandoci a desiderare di diventare anche noi, un giorno, uno di quegli improbabili personaggi bohémienne Anni Zero che discutono con nonchalance di arte, filosofia e musica, agitando nell’aria un bicchiere di vino, come se non ci fosse niente di più importante.
Irrational man si colloca, perfetto come un pezzo di puzzle dalla forma giusta, nella serie di film carini ma dimenticabili del Woody Allen degli ultimi anni, con ottimi attori e sceneggiature spicce, che salvo qualche exploit creativo (o recitativo, nel caso della Cate Blanchett di Blue Jasmine) vivono della luce riflessa dei vecchi capolavori del maestro della commedia amara (prima) e del drama-noir (dopo). Alla prima categoria si rifaceva l’anno scorso Magic in the moonlight, che ripercorreva le magiche orme del carinissimo Scoop e dei più stagionati Stardust memories e La maledizione dello scorpione di giada, mentre quest’ultimo appartiene alla seconda.
Questo nuovo “uomo irrazionale” alla Allen ripropone il tema dell’omicidio come extrema ratio, e quindi della morte come unico vero accadimento di senso compiuto in una vita umana che, secondo il classico nichilismo di Woody Allen, è dominata dal caso e non ha assolutamente alcun senso. Il tono però è leggerissimo, senza pretese. Come se ad assassinare la Johansson ci fosse stato un nevrotico e balbettante alter ego di Woody Allen, al posto del Dostoevskij di Delitto e castigo. Alla stregua di Match point, infatti, la citazione non manca ad arrivare, peccato che qui venga schiaffata in faccia con la grazia di un elefante, come molti altri più o meno ricercati riferimenti colti disseminati con poca cura per tutto il film, a dimostrazione che siamo di fronte a un cineasta a corto di idee, anche se ancora prolifico e lucido.
Un Woody Allen troppo innamorato del cinema per mollare la presa, nonostante la veneranda età. Non a caso non ci sorprende più con trame o battute sagaci, ma con deliziosi piccoli dettagli geniali da neodiplomato di scuola di sceneggiatura, come quella torcetta insignificante che rotola fuori dalla borsetta e decreta in due secondi il finale della storia.
La verità, è che dopo oltre settanta titoli di film, ripetersi è inevitabile, e la sensazione del suo pubblico (ormai molto allargato) è che il caro Woody faccia sempre solo un compitino (anche se bene). La sensazione mia, è quella di trovarmi di fronte a un nonno simpaticissimo che ogni volta che lo vado a trovare, ci tiene a raccontarmi sempre la stessa bella storia. E io non ce la faccio proprio a zittirlo.