Il racconto del concerto del duo britannico al Cap10100 di Torino.
di Lorenzo Giannetti – Sgombra la mente sembra essere il mantra per approcciarsi ad un concerto dei Matmos. Come assistere ad una seduta spiritica dai contorni meravigliosamente indefiniti. Come afferrare il mistero sotteso ad ogni composizione degli alchimisti elettronici di San Francisco? Con la giusta dose di attenzione, curiosità ed ironia. Sì, perchè l’”accademismo anarchico” dei Matmos non si crogiola solo nella ricerca fine a se stessa: mira ad incanalare i dati relativi alla risposta del pubblico nel proprio studio concettuale. E allora – in qualche misura – lecito parlare di “pop”?
Facciamo un passo indietro e guardiamo alla disposizione dello stage. Le postazioni una di fronte all’altra, armate tanto di chincaglieria elettronica quanto di oggettistica “concreta”, rivelano un’ilare contrapposizione anche stilistica: da una parte Martin Schmidt, il professore letterato con la giacca in tweed e gli “oggetti da trasformare”, dall’altra Drew Gabriel, cyber punk di matrice metalcore-industriale in assetto da dj e gilet borchiato con toppa di Merzbow. Una sedia ai bordi del palco, rivolta verso il pubblico, sfruttata in apertura per “psicanalizzare”, bendato, il chitarrista aggiunto in formazione (assieme ad un batterista) rimane poi vuota per quasi tutto il concerto: quasi ad accogliere l’intero parterre a sedersi per dialogare coi Matmos. Di seguito si sciorina buona parte dell’ultimo Marriage of true minds, dal pathos in odore di ultimi Archive della febbrile Very large green triangles al misticismo techno di The Tunnel, con le note incursioni nel rumorismo DIY care soprattutto a Schimdt, che ritaglia – nell’ordine- porzioni di suono da un boccaglio immerso in una vaschetta piena d’acqua e fa letteralmente “noise” con un palloncino gonfiato sul momento e percosso con le dite umide!
La reazione del pubblico è straniata ma partecipe: il fatto che i Matmos mantengano un piede nei confini del pop fa sì che buona parte dell’audience si trovi spiazzata da certe performance di concrete music, quand’ecco che è lo stesso professore a smorzare i toni: “grazie, potete provarci anche voi quando siete a casa!”. Merita sottolineare come un approccio che a molti può – ragionevolmente – apparire snob si accompagni ad un atteggiamento decisamente easy-going: in termini spiccioli, questi Matmos non si prendono TROPPO sul serio. Il loro approccio è curioso, non pretenzioso. Il dialogo col pubblico è costante: arma a doppio taglio se si considera che inaspettatamente il concerto perda un briciolo di continuità e pathos, nel tempo occupato a “predisporre” i pezzi in scaletta. Ma fa parte del gioco, credo, dare tempo al pubblico di metabolizzare: più che un’asettica setlist una specie di esperimento collettivo.
E quando i due introducono la cover buzzcock-iana E.S.P. chiedendoci se ci piace il punk-rock, con Schimdt a ridere sotto i baffi – Bach, Beethoven, Buzzcocks! -, capiamo che l’asse su cui tutti poggiamo questa sera è quello trasversale che taglia l’intera storia della musica, senza limiti o pregiudizi. Dopo il bis il pubblico non placa il suo entusiasmo e Gabriel ha addirittura la carineria di uscire in pasto al CAP10100 e spiegare che lo stop tassativo a mezzanotte non lascia margini per un ritorno sul palco, augurandoci buona notte. E calcolare il coefficiente “pop” del prodotto finale, a questo punto sarebbe scortese, oltre che irrilevante.