Jim Carroll: voglio solo essere puro

Ricordo di Jim Carroll, scrittore e cantante della Grande Mela: artista che, forse più di tutti, è riuscito a portare la “purezza” della poesia nella musica punk.

di Filippo Santin  –  Provate ad immaginare un corpo dalla pelle trasparente: delicato come il vetro. Al suo interno si potrebbe intravedere la densa ramificazione di vene ed arterie che raggiungono ogni dettaglio di quelle forme. Magari ci apparirebbe simile ad una sorta di mappa; come quella, immensa, su cui sono disegnate le linee della metropolitana di New York. Sono binari violenti, d’acciaio, questi. Sporchi, ma sui quali lasciarsi andare senza troppi pensieri e timori.

Ci potrebbero condurre dal quartiere in cui Sid Vicious perse la vita (e l’innocenza), fino a quello in cui John Lennon venne ucciso da un sedicente Holden Caulfield. Era un John Lennon che non credeva più ai suoi idoli, quello; che cantava al mondo: “Il sogno è ormai finito”. Siamo a cavallo tra l’inizio del 1979 e la fine del 1980.

In mezzo a questi due avvenimenti, un poeta, che fin da ragazzino aveva in sé il cuore pulsante della città, trova una nuova via per raccontare (e raccontarsi): la via del rock’n’roll.

Nel gennaio del 1980 esce quello che sarà il primo disco con la sua band: “Catholic Boy”. Al suo interno troviamo una canzone che, essendo stata scritta da un poeta – uno di quelli davvero bravi, come lo aveva definito Kerouac anni prima – è fisica,  profetica e senza trucchi: “People Who Died”. Mi riferisco a Jim Carroll. Un artista “puro”, malgrado tutto.

Forse in Italia non è molto conosciuto (anche se c’è qualcuno che lo ha citato: Emidio Clementi, per esempio, nella canzone “Inverno ’85” dei Massimo Volume). E dire che Jim sembrava parlare a tanti. Un po’ come Cobain; al quale somigliava, in un certo modo, anche d’aspetto: con i suoi lunghi capelli biondi, e la corporatura esile.

[quote]Voleva essere puro, Jim. Ma al giorno d’oggi sarebbe davvero possibile? In un’epoca dove – Carroll diceva – i poeti non cercano più di essere veicoli per cambiare il mondo, ma pensano soltanto a scrivere per altri poeti; narcisisticamente, e quindi infantilmente.[/quote]

Jim Carroll nasce a New York nel 1950, in una famiglia di origini irlandesi. Già da ragazzino sente il forte bisogno di scrivere, ed è il fratello più grande, scoperto il suo talento, a spingerlo a continuare. Nello stesso periodo gioca a basket nella squadra della sua scuola – una scuola cattolica. È un fenomeno. Molti prevedono per lui un futuro radioso in questo sport. Ma già attorno ai tredici anni, Jim ha le prime esperienze con l’eroina; che lo porteranno, in poco tempo, ad esserne dipendente. Vedrà così svanire i suoi (o i loro?) sogni di gloria.

È nel pieno dell’adolescenza quando una sua raccolta di poesie – “Organic Trains” – viene pubblicata. L’opera si diffonde rapidamente nella scena intellettuale underground di New York, raccogliendo consensi entusiasti. Arriva persino tra le mani di William S. Burroughsun altro “cantore junkie” – che non teme di definire Carroll “uno scrittore nato”.

Altre raccolte di poesie continuano ad essere pubblicate (con una di queste viene addirittura candidato al Premio Pulitzer); fino a che, nei primi anni Settanta, Jim comincia a lavorare per Andy Warhol, collaborando tra l’altro alla scrittura dei suoi film. Sono gli stessi anni in cui si trova a frequentare personaggi come Allen Ginsberg. Ed è alla fine del decennio, nel 1978, che viene data alle stampe la sua opera letteraria più importante, conosciuta ancora oggi: “The Basketball Diaries” (da cui nel 1995 sarà tratto un film con protagonista Leonardio DiCaprio).

Si tratta di una raccolta di diari iniziati da Jim quando non era ancora tredicenne, nei quali raccontava, giorno per giorno, la perdita d’innocenza che lo trascinerà fino ai sedici anni. Le vicende riguardanti la sua promettente carriera di giocatore di basket spariscono pagina dopo pagina in un abisso lastricato di sesso e droga.

Il libro porta il nome di Carroll sotto agli occhi di sempre più persone. Molti giovani “senza futuro” – siamo negli anni dei Sex Pistols – vi si rivedono. È l’epoca del punk. Non più quella degli hippie. E se di punk si discute, allora bisogna citare una pioniera del genere: Patti Smith. Con lei Jim aveva condiviso un appartamento a New York. Sempre nel 1978, in California, dove si era trasferito per sconfiggere la dipendenza dall’eroina, decide di farle visita durante un suo concerto a San Diego. Il gruppo spalla non si era presentato; così, Patti Smith, convince Jim a salire sul palco e a leggere qualcosa di suo. Lo introduce come “il tipo che le ha insegnato a scrivere poesie”. Quella sera il pubblico, estasiato dalle sue parole e dalla musica con cui la band di Patti Smith lo accompagnava, uscì di testa.

Dev’essere stato in quel momento che Jim Carroll ha realizzato di voler andare oltre – come al solito: tentando di unire la sua poesia al punk. Radunò un gruppo di musicisti che al tempo si faceva chiamare Amsterdam. Con lui divennero la Jim Carroll Band.

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Iniziarono suonando in qualche locale di San Francisco (città da sempre simbolo della cultura alternativa americana). Successivamente, quando Jim fece ritorno a New York per delle questioni riguardanti “The Basketball Diaries”, portò con sé una demo del suo gruppo. La cassetta passò di mano in mano; fino ad arrivare, tra gli altri, all’orecchio di un esaltato Keith Richards. Insieme al chitarrista dei Rolling Stones la Jim Carroll Band si troverà poi a condividere il palco in una manciata di occasioni.

Alla fine è la Atlantic Records a metterli sotto contratto. Con questa etichetta, proprio all’inizio del 1980, esce il loro disco d’esordio: “Catholic Boy”. In copertina vediamo Jim abbracciato ai suoi genitori; Annie Liebovitz, autrice della fotografia, tinge il tutto con colori fluorescenti e dal gusto lisergico.

Al primo ascolto l’album irrompe senza fare sconti. Non c’è alcuna introduzione che ci permetta di accomodarci: la chitarra di “Wicked Gravity” ci colpisce immediatamente, dritti al petto. Così come quella di “Three Sisters”. Pieno stile Ramones. Il primo attimo di riposo si ha soltanto con “Day And Night”.

È a metà disco, tuttavia, che compare la canzone più celebre del gruppo: “People Who Died”. Jim ricorda qui le vite sfortunate di alcuni suoi compagni di viaggio, che sono scomparsi, tragicamente, senza riuscire a diventare adulti. Ignorando le parole del testo potremmo dire che “People Who Died” suoni come una canzone allegra, fatta per ballare. Qui Jim sembra gridare in faccia alla morte: “Ti sei presa i miei amici. Ma io, per dispetto, continuerò sempre a ricordare le loro vite con amore”. “People Who Died” trascina l’album in alto. Nel 1980 diventa una delle canzoni più richieste alla radio. Finirà addirittura, un paio di anni dopo, nella colonna sonora di “E.T. l’extra-terrestre”.

Il disco continua poi con “City Drops Into The Night”, che si apre con lo stridio umido e oscuro di un sassofono. Lungo i sette minuti della canzone riusciamo a percepire l’odore minaccioso delle strade di New York. “Before the darkness there’s a moment of light,” – rivela Jim. – “When everything seems clear. The other side, it seems so near…” Tra “corvi ed angeli” – citando i titoli di altre due canzoni – il disco vola vicino alla conclusione, sulla scia dell’ipnotica linea di basso di “It’s Too Late”, in cui Jim sbotta: “I’m here to give you my heart, and you want some fashion show”. Una frase che, se contestualizzata, può fungere anche da critica verso la scena musicale dei giorni nostri. “Catholic Boy” termina con una canzone dall’omonimo titolo. È la fine di un sentiero musicale che non si è posto troppe domande sulle proprie capacità di redenzione. Ma che, piuttosto, ha voluto mostrare la malinconica bellezza di chi non è abbastanza robusto per essere sensibile liberamente.

[quote]A fine anni Settanta, Carroll è stato forse il primo (ed unico) capace di adattare la poesia di uno “scrittore nato” ai contorni grezzi del punk[/quote]

Dopo altri due dischi con il suo gruppo la discografia di Jim Carroll si farà negli anni un po’ confusa: tra bootleg, dischi live o di solo spoken word. La sua ultima opera ufficiale è “Runaway”, un EP pubblicato dalla Kill Rock Stars. Durante la sua carriera il poeta avrà modo di collaborare con Blue Oyster Cult, Lou Reed; e anche con gruppi più giovani, negli anni Novanta, come Pearl Jam e Rancid (assieme a questi ultimi la canzone “Junkie Man”, dal loro storico album “And Out Comes the Wolves”).

Va ricordato che Jim Carroll era pur sempre uno scrittore. Non un musicista. Alle volte, quando canta, la sua voce sembra stentare; come se in fondo Jim si trovasse più a suo agio con una penna in mano. Può darsi che “Catholic Boy” non sia un capolavoro dal punto di vista musicale. Ma rappresenta comunque un disco cardine degli anni Ottanta.

Faccio fatica a ricordare un artista che, come Jim Carroll, sia riuscito ad unire la poesia – quella d’impronta letteraria, che ha piena coscienza di sé – alle sonorità del punk e della new wave. Certe doti liriche appartenevano a cantautori folk come Leonard Cohen o Bob Dylan; magari ad un cantante rock come Jim Morrison. Tuttavia, nella scena punk sviluppatasi a fine anni Settanta, Carroll è stato forse il primo (ed unico) capace di adattare la poesia di uno “scrittore nato” ai contorni grezzi di questo genere musicale.

Gli deve molto anche la scena grunge che di lì a dieci anni sarebbe cresciuta fino ad esplodere. Come “immaginario” di riferimento, diciamo. Le somiglianze: quei capelli lunghi; gli sguardi persi; i toraci stretti che, però, contenevano un quantità infinita di voce da espellere; le droghe pesanti; l’ingenuità smarrita; una generazione disillusa, fatta di cristallo, che combatteva l’ipocrisia degli “adulti” autodistruggendosi; sempre a metà fra rabbia e dolcezza.

Vi è venuto in mente Kurt Cobain? Se negli anni Novanta si parlava così tanto di “rock alternativo”, forse è perché questo genere aveva affinità con una “cultura alternativa” – le cui radici partivano dalla Beat Generation. Una cultura di cui, molti anni prima dei “grunger” di Seattle, era stato degno membro Jim Carroll.

Se n’è andato nel 2009. Colto da un infarto, mentre era intento a fare ciò che amava di più: scrivere. Voleva essere puro, Jim. Ma al giorno d’oggi sarebbe davvero possibile? In un’epoca dove – Carroll diceva – i poeti non cercano più di essere veicoli per cambiare il mondo, ma pensano soltanto a scrivere per altri poeti; narcisisticamente, e quindi infantilmente.

“There’s no one left that I even wanna imitate…” – cantava già in “It’s Too Late”.

Qui non si tratta di una nostalgia fine a se stessa (anche se delle cosiddette “sbavature” potrebbero esserci). Non è tanto la nostalgia di una giovinezza in cui si era “liberi” di non avere grandi responsabilità. Di quel periodo manca l’autenticità, dove ogni sentimento veniva provato per la prima volta. Manca la verità. Manca spesso oggi, a causa di tutti i filtri che ci sono stati messi a disposizione.

Può darsi che lungo questo viaggio di (ri)scoperta Jim Carroll abbia commesso degli errori. Si è comunque tenuto distante, in maniera abbastanza equilibrata, dal demonizzare o dall’esaltare il suo passato fatto di vizi autodistruttivi. Ho l’impressione che desiderasse unicamente raccontarsi; per trovare, elevandosi così, una bellezza nascosta.

Non m’interessa dare giudizi morali sulla sua condotta. M’interesserebbe, piuttosto, setacciare quel che Jim aveva dentro. Ma non esistono corpi trasparenti. Rimane sempre un orizzonte di ambiguità; come nel finale di “The Basketball Diaries”. Ed in fondo è giusto così.

Perché la verità non bisogna sviscerarla, né esibirla a caso. È meglio mostrarla, umanamente, avendone rispetto anche quand’è violenta. Correggendone le imperfezioni soltanto se necessario.

“Nel basket c’è sempre una sola direzione, al canestro. E non c’è bisogno di mirare,” – scriverà Jim Carroll in ‘The Downtown Diaries’. – “Nel basket puoi correggere i tuoi errori immediatamente e stupendamente, a mezz’aria”.