di Isabella Parodi – Un cartellone pubblicitario, due giganteschi occhi blu che osservano la miseria della periferia operaia della Big Apple quando negli anni ’20 il pesante motore del capitalismo aveva ormai preso il giusto giro. Fuori città un altro paio di occhi osserva in sospeso: sono quelli di Jay Gatsby circondato dalle sue lussuose feste cui non prende mai parte. E poco lontano, il giovane ingenuo Nick osserva tutto questo, come un narratore esterno (ma interno), senza realmente partecipare.
Un gioco di sguardi, di occhi che vedono ma non toccano, di scorci solitari su immagini vivide, violente, magniloquenti. Sono fotografie che il regista Baz Luhrmann conosce molto bene, già ammirate per le strade di Montmartre nel laccatissimo Moulin Rouge! o per i sobborghi di Los Angeles in Romeo + Giulietta.
Quando si parla di Lurhmann, l’opinione dei critici rotea incerta come una bussola impazzita tra il disgusto per l’ostinato oltraggio a opere intoccabili, e l’ammirazione di un genio dell’estetica trash-barocca, quasi di un’avanguardista dell’adattamento cinematografico. Eppure il sagace burattinaio Luhrmann osa ancora, anche se meno del solito, investendo di moderni luccichii un altro mito della cultura occidentale. E lo fa senza andarci fino in fondo ahinoi, forse proprio per timore di oltrepassare quel limite della decenza che in molti gli rimproverano (in realtà di lunga superato in Romeo + Giulietta): la chance è servita dal Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Quella “Jazz age” che l’enigmatico romanziere descrive a tinte arcobaleno nel suo masterpiece parlava direttamente alla generazione degli anni ’20 che la stava vivendo sulla sua pelle, in attesa di infrangere i propri legittimi sogni nel buco nero del ’29. E Luhrmann lo prende da esempio, calando il tutto nella nostra rampante “hip hop age”. Un’operazione già fruttuosa nei lavori precedenti e che con azzeccate e pirotecniche pennellate registiche accorcia le distanze con i giovani delle generazioni passate, coinvolgendo lo spettatore in modo nuovo e fresco.
Complice assoluta la colonna sonora naturalmente, già leggenda ben prima che si premi play al Festival di Cannes: firmata dal braccio destro di Luhrmann Craig Armstrong e prodotta da niente meno che Jay-Z, si mescola per benino con piume, bretelle e lucenti auto d’epoca. A cominciare dal rap sofisticato della nuovissima 100$ Bill di Jay-Z, arricchita qua e là da leggeri aliti di sax molto swing, ci si allarga con la cover della Back to Black di Amy Winehouse, interpretata da una sempre meravigliosa Beyoncé in coppia con André 3000: versione se possibile ancora più amara dell’originale, dove il soul originario si armonizza con intelligenza con un hip hop malinconico degno di Lana Del Rey. Ad animare le selvagge feste a casa Gatsby ci pensano invece Bang Bang diwill.i.am piacevolissimo mix di electro swing, dance e hip hop, e A Little Party Never Killed Nobody di Fergie, Q Tip e GoonRock su cui Luhrmann si sfoga con balli scatenati, fuochi d’artificio e fiumi di champagne, filtrati dagli occhi esterrefatti dell’osservatore-Nick (molto simile allo scrittore tragico – Ewan McGregor di Moulin Rouge!), ancora estraneo all’opulenza e alle frivolezze della sfaticata gioventù disillusa.
L’apice dei sensi si tocca con la sequenza cullata dalla malinconia glamour di Lana Del Rey nel nuovo singolo Young and Beautiful, sfondo del ri-congiungimento di Gatsby con l’amata Daisy, dopo troppi (incancellabili..) anni di separazione. “Will you still love me when I’m no longer young and beautiful? / Will you still love me when I got nothing but my aching soul?” è Gatsby a ripeterlo, mentre disperato vuole riconquistare la donna amata con quella stessa ricchezza che un tempo si sognava, nel vano tentativo di cancellare il tempo perduto. Un vero eroe romantico e puro, destinato ad essere sconfitto dal gretto paesaggio moderno che intorno a lui si va consolidando, dove sentimenti e sogni vengono spazzati via dalla tiranna superficialità dell’apparenza e del possesso. La canzone ci trascina con poche, significative parole nell’assoluta certezza che quell’amore, quell’ultimo bagliore di umanità autentica, non sarà mai possibile. La cover di Jack White di Love is Blindness ribadisce poi il concetto, riecheggiando come ultimo grido morente di un sentimento che non può più esistere, una volta corrotto dal vil denaro.
Tocca invece a Florence and The Machine con l’inedita Over The Love parlare alla fievole luce verde sull’altra sponda della baia, cui ogni sera Gatsby tende la mano, come ad afferrare qualcosa di irraggiungibile, mentre l’onnipresente Hearts a Mess diGotye porta avanti la deriva del protagonista, sottolineando definitivamente il distacco stilistico con la prima parte del film, più frivola e caricaturale. “Più Luhrmann”, si potrebbe dire. La chiusura è ancora da brividi con Together dei The xx: sono loro a spegnere la luce verde, a buttarci nel buio della sala e dei titoli di coda, con la pelle d’oca. Ma siamo onesti, non è solo l’apparato musico-tecnico che riesce ad emozionarci. Ancora una volta, il cast d’attori scelti rasenta la perfezione: a cominciare dall’immenso Leonardo Di Caprio, un Gatsby perfetto nella sua insita ambivalenza, teso costantemente tra un animo intimamente puro e bisognoso d’amore, e la greve esigenza di costruirsi una maschera che lo allontani da tutto e tutti; d’altra parte non ci sono occhi migliori di quelli di Carey Mulligan per ridare vita alla complessa Daisy, innamorata sì di Gatsby, ma non abbastanza da rinunciare a quello status infelice (eppure così comodo..) di moglie ricca; e infine Tobey MacGuire, che nonostante non ci fulmini con la migliore delle interpretazioni, pare nato per questa parte da eterno terzo incomodo.
Di questo Grande Gatsby si è detto di tutto ormai, tra traduzioni letterarie, trasposizioni teatrali e (dopo questo) ben quattro film. E nonostante ciò, ancora manca quel senso di commossa elegia e insopportabile nostalgia per quel sogno americano che con l’avvento della luccicante jazz age esalava l’ultimo respiro. Troppo frigida e didascalica la versione di Coppola negli anni ’70, dove quel Gatsby-Redford fece innamorare un’intera generazione di spettatrici; troppo strabordante di dettagli questo nuovo pargolo di Luhrmann, che non riesce fino in fondo a rendere le diverse anime del libro, inciampando proprio su quei contenuti silenti che resero l’opera di Fitzgerald un capolavoro assoluto. Galeotti forse i sentimenti qua e là esageratamente urlati e un finale che si compiace, troppo.
La hip-hop age del Grande Gatsby
