Quinto film e quinto disco: un Aprile carico per i fan di Rob Zombie, che dopo alcuni anni di meritata pausa filmica torna con l’ennesimo appuntamento horror. Questo Lords of Salem è però diverso dai precedenti, più lirico e sofisticato, meno putrido e tamarro: un incubo allucinato non stop, che riporta alla luce in pompa magna l’essenza delle streghe vecchia maniera. Niente moderne witches griffate ma vere e proprie serve del demonio, quelle bruciate dalla comunità puritana di Salem sui famosi roghi di fine ‘600, ovviamente non prima di aver scagliato la maledizione che un giorno o l’altro le avrebbe fatte risorgere. E non sarà un libro con formule magiche in sumero come nel leggendario (e ispiratore) The Evil Dead di Raimi: il regista è pur sempre il folle Rob Zombie e così il veicolo del male diventa un disco. L’ignara dj radiofonica Heidi (l’onnipresente moglie del regista Sheri Moon) lo trasmette a Salem destando nelle donne della città istinti stregoneschi sopiti da lungo tempo. Tre note basse che si ripetono con lentezza insopportabile, opprimenti, come opera di un’orchestra di morti viventi armata di logori violini. Un dettaglio quanto mai rivelatore dell’anima musicale del film, per cui il regista si ispirò a quella scena industrial-esoterica tutta anni ’80 che infarciva la propria musica di formule e invocazioni per suscitare nell’ascoltatore stati di coscienza infernali.
Da quando quelle note maledette cominciano a suonare, l’incubo ha inizio. La realtà è invasa da visioni oniriche morbose, sanguinolente, a tratti clamorosamente blasfeme (ma d’altra parte l’argomento lo richiede..) in cui Zombie ha modo di dedicarsi a quello che gli riesce meglio: creare atmosfere, inquietanti deliri fotografici e musicali che non possono non rimembrare i fasti delSuspiria di Dario Argento o quel mood satanico-borghese del Polanski di Rosemary’s Baby.
Le musiche sono ovviamente di Zombie e John 5 (suo chitarrista fidato), che insieme compongono unmain theme carillonesco al punto giusto, in qualche modo vicino ai melodici sintetizzatori che John Carpenter ammaestrava nei suoi blockbuster horror. E insieme al soundtrack originale, ci sono i Velvet Underground a dominare la componente più “classica”, con pezzi come Venus in Furs e All Tomorrows Parties che ben si innestano nei ritmi strascicati del film. La magniloquenza più assoluta è raggiunta però dalla Messa di Requiem in Re Minore, ultima fatica incompiuta di Mozart. Un classicismo che non passa inosservato, specialmente se figlio di una star del metal che finora violentava le sue pellicole a colpi di rock duro. E’ infatti evidente come Le streghe di Salem non sia più quel crogiuolo di situazioni gore alla Wes Craven e Tobe Hooper, magicamente riesumati con l’ottima saga splatter d’esordio delle due case (dei 1000 corpi e del diavolo): questo nuovo lavoro attinge a piene mani dai capolavori anni ’70 dell’horror giallo all’italiana, primi tra tutti Mario Bava e Argento. Prendere in prestito non è uguale a copiare, come mr Tarantino potrebbe commentare, ed è per questo che sebbene un cambiamento di rotta così drastico abbia confuso i fan del Zombie-trash, un’altra buona parte ha apprezzato il coraggioso salto al manierismo di qualità. Zombie è quel personaggio che o si ama o si odia (la scomunica del Vaticano era quanto meno prevedibile…), ma è una condizione che nessun autore vero può evitare. Lo stesso Dario Argento pensa che Zombie sia uno dei pochi registi horror americani per cui vale la pena spendere i soldi del biglietto, e nonostante la sua parola di questi tempi sia più che mai deprecabile, dobbiamo dargli ragione.