di Isabella Parodi – Trent’anni di potente heavy metal sulle spalle e uno strepitoso gusto per l’orrido. Uniscici un nome d’arte che non lascia scampo, e otterrai Rob Zombie, l’emblema vivente della rockstar pronta a mettersi in gioco anche nel mondo della celluloide, e più precisamente in quella scomoda e purtroppo sottostimata regione che è il genere horror.
Non si può certo dire che Rob sia arrivato impreparato al suo debutto dietro la cinepresa: decenni di video musicali da lui diretti e di live performances inzuppate di riferimenti satanici e horror-fantascientifici già denotavano lo spiccato interesse del frontman dei White Zombie per la pellicola di paura e violenza.
Il suo stile registico è quindi non solo in linea con il suo io musicista, ma si intreccia ed incarna con esso fino a partorire un prodotto ideale e, in un modo tutto suo, pulito, nonostante la sovrabbondanza nauseabonda di sangue, interiora e delle più impensabili volgarità. E ancora, una cura estrema nella scelta delle musiche (variabilissime da film a film) e nel citazionismo riverente ed esasperato dei maestri dell’horror da cui trae ispirazione: molto si deve al pionierismo anni ’70 di Wes Craven e Tob Hooper, il cui tipico acidissimo sapore gore si mescola per benino con uno splatter più vicino ai giorni nostri, in un delirante carosello di rock ‘n roll e morte.
La casa dei mille corpi (House of the 1000 Corpses), esordio di Zombie come regista, prese il nome da un pezzo del suo secondo album solista The Sinister Urge: la canzone, dopo una grottesca rapina finita in un bagno di sangue, accompagna i titoli d’inizio del film affiancando un montaggio sporco e improbabile di spezzoni splatter e porno mischiati insieme.
Del primo film, due sono i meriti: un soundtrack eccezionale, dove il suo repertorio metal (Everybody Scream, Run, Rabbit Run, Halloween Stomp) si accoppia intelligentemente con rivisitazioni spacca ossa di Ramones e Commodores, e la creazione di un personaggio mitico, Captain Spaulding, il bifolco vestito da clown che nel bel mezzo del nulla desertico distribuisce gasolio e pollo fritto suggerendo ai clienti la fantomatica scorciatoia che li porterà alla morte. Una specie di IT Texano del nuovo millennio, ma più spaventoso perché ben più reale e terreno.
Lo ritroviamo nel sequel La casa del diavolo, meno grottesco e delirante del primo, un cocktail più apprezzabile di trash, kitsch e folle ironia. Qui le musiche non attingono più dai lavori di Zombie, ma concorrono a dare un volto più marcatamente sudista all’arido paesaggio Texano in cui il film è ambientato: c’è quindi molto southern rock (Lynyrd Skynyrd, Elvin Bishop, Allman Brothers Band…) in alternanza coi mostri sacri del folk e country-blues americano. Memorabile, a tal proposito, la scena finale dove lo spettacolare assolo di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd accompagna la corsa contro la morte dei tre schizzati carnefici.
Con la benedizione entusiasta di John Carpenter, Zombie si butta pure sul rifacimento diHalloween: non copia, ma riscrittura reverenziale nei confronti del maestro dell’horror, creatore di una delle saghe di paura che più hanno influenzato gli anni ’80. Con Halloween, the beginning e il sequel Halloween II, la storia si carica di nuovi significati, come il maggior scavo psicologico del mitico Michael Myers (e un improbabile Malcolm McDowell nei panni dello psicologo), e il pallido tentativo di formulare una qualche critica sociale nei confronti delle meschinità che albergano tra le stradine dei quartieri residenziali nelle piccole province americane.
Comunque, lo stridente sintetizzatore con cui Carpenter compose da solo quasi ogni sua colonna sonora resta invariato, maggiorato però da qualche effetto “metallizzante” creato ad hoc da Zombie.
E in futuro? C’è chi lo spinge a smetterla col suo ostinato ed esageratamente violento citazionismo privo di significato, e chi invece lo invita a continuare per migliorarsi, riconoscendogli una certa abilità nel portare una ventata di aria fresca nel mondo dell’horror mainstream contemporaneo, che tende ad annoiare gli appassionati del genere. E’ indubbiamente interessante il modo in cui Zombie ri-adatta lo splatter vecchio stile all’attualità, riproponendo quel “pornhorror-hardcore” dove la carne viva e il sangue che schizza a fiotti non serviva a soddisfare occhi vogliosi di violenza come adesso, ma a muovere una feroce critica contro l’edonismo e l’esteriorità come valori esistenziali imperanti. Questo si avverte, e non è niente male.