di Isabella Parodi – Inghilterra in un futuro prossimo non precisato: Alex e i suoi Drughi sorseggiano al Korova Milk Bar un bel bicchiere di “latte e più”, cioè “latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, (…) roba che ti fa robusto, e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza.”
Diretto e senza veli il leggendario incipit di Arancia Meccanica (tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess), capolavoro di Stanley Kubrick che nel 1971 scandalizzò il mondo rimanendo tabù per oltre trent’anni: subito il film sbatte con eloquenza sullo schermo le attività favorite dal protagonista (il mitico Malcolm McDowell), adolescente della medio borghesia vittima indiretta di una realtà dove la violenza impera su tutto. Un personaggio unico, icona culturale di una generazione (e anche di più) che segò di fatto le gambe alla carriera di McDowell, dando il via a omaggi/parodie a non finire nel mondo cinematografico come musicale: quanti artisti hanno indossato l’epica divisa bianca con sospensorio, bombetta e ciglia finte! Tra i tanti, Guns ‘n Roses, Led Zeppelin, Gorillaz, Rob Zombie, e più di tutti il gruppo punk rock The Adicts, di recente sconfinati anche nel look del nuovo Joker di Nolan.
In un chiacchiericcio forbito e irresistibile infarcito di influenze cirilliche (il Nadsat di pura invenzione letteraria), Alex racconta con non chalance le sue scorribande notturne, fatte di pestaggi, stupri, furti e danni di ogni genere. Ad accompagnarlo, il lento tema principale del film, il seicentesco The Funeral of Queen Mary scritto da Henry Purcell, qui variato da Wendy Carlos, all’epoca maestra della ricerca elettronica sconfinante in futuri tecnologici di prospettive inquiete e angoscianti. Nulla di più appropriato per questo primo assaggio di una colonna sonora di successo mondiale, dove il distopico pessimismo di Kubrick si piega all’uso amaramente sarcastico della musica classica: è sbeffeggiamento, di fatto, l’abuso indiscriminato di nomi intoccabili come Beethoven o Rossini per mettere in luce il gioco dei contrari tipicamente Kubrickiano, che qui volta le spalle all’ossequioso omaggio al Walzer di Strauss di 2001, Odissea nello Spazio.
Dopo il gretto pestaggio di un barbone, i Drughi fanno rissa con la gang rivale di Billy Boy, e qui entra in gioco la Ouverture della Gazza Ladra di Gioachino Rossini, vitale, energica, assordante, in drammatico contrasto con la violenza della scena: l’allegretto del pezzo dà un carattere quasi gioviale al pestaggio, palesando fino in fondo il rapporto giocoso e disincantato tra i candidi Drughi e la violenza. La Gazza Ladra ritorna anche nella scena al rallentatore dello scontro interno tra i Drughi (“..la musica mi venne in aiuto. C’era una finestra aperta con uno stereo, e seppi subito che cosa fare.”); e ancora, nella scenda dell’omicidio della gattara alla clinica per dimagrire, dove l’arma del delitto è un gigantesco pene in ceramica.
Più tardi, dopo una corsa in contro mano sulla Durango 95, “un po’ di vita, qualche risata e una scorpacciata di ultraviolenza” nel numero a sorpresa, dove prende luogo la scena più discussa del film, censurata in tutte le salse: Alex pesta a sangue un uomo e violenta la moglie canticchiando allegramente Singin’ in the Rain. Eccolo qui il vero scandalo musicale del film: in un momento in cui la danza festosa di Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia ancora allietava i ricordi di tutti, Kubrick osava dissacrarla sottoponendola ad un ballo di crudeltà intollerabile. McDowell, vero ideatore della scena, distribuisce calci e pugni a tempo con la canzone, divertendosi un mondo.
E per il celeberrimo ménage à trois con le due ragazze rimorchiate al negozio di dischi, di nuovo Rossini: il Guglielmo Tell anima briosamente la scena accelerata, in un dinamismo irrefrenabile e martellante dalla prospettiva esasperata.
Beethoven completa l’ossatura musicale, non solo come leitmotiv delle scene violente, ma come compagno di Alex, innamorato del suo “dolce dolce Ludovico Van” come nessuno mai: il secondo movimento della Nona Sinfonia risveglia in lui immagini di inaudita violenza; il quarto movimento (l’Inno alla gioia) è invece ribaltato nel significato per accompagnare i filmati sui lager e le marce naziste del trattamento Ludovico, promosso dalla classe politica vigente. Tradito dai suoi fratelli e finito in carcere per omicidio, per accelerare la pena Alex accetta una cura sperimentale, sottoponendosi a immagini, farmaci e reazioni indotte con cui è rieducato a soffrire fisicamente al minimo pensiero violento che gli attraversa la mente.
Alex è rigettato del tutto indifeso nel mondo, e subirà la vendetta delle sue vittime, passando velocemente da spietato carnefice a martire di un mondo dove a regnare è la violenza stessa: Kubrick ne fa un ritratto iperrealista e senza vie di mezzo, formulando una critica ultra pessimista della società di allora, ancora boccheggiante di Guerra Fredda dopo già tanto sangue versato. Alex diventa il simbolo di un’inquietudine giovanile dilagante e fuori controllo, fomentata da una crescente assuefazione alla violenza che induce non più ad usarla come mezzo per difendere le proprie idee, ma alla prospettiva nichilista ed estetizzante di mezzo per ottenerne.
Non elegia quindi, come molti hanno pensato, ma rassegnazione alla sua onnipresenza, tra chi comanda (gli ex Drughi che diventano poliziotti la dicono lunga…), chi è comandato e pure nella religione (il laicismo a tratti blasfemo di Kubrick si tocca con mano). Senza violenza non si sopravvive in questo mondo, e in quanto male radicato nell’essere umano il punto sta come sempre nel libero arbitrio: dopo la cura, Alex ne è privato ed è “spinto al bene dalla spinta verso il male” senza reale possibilità di scelta, altra critica del regista ad una realtà dove sempre più spesso si è disposti a vendere la libertà di espressione in cambio del quieto vivere. Esemplare a tal proposito l’amaro finale, dove Alex entra nel diabolico meccanismo della politica scoprendo che il crimine paga, e anche bene.