Forse si è perso un po’ “l’effetto wow” ma i film del regista americano sono ancora una gioia rara per gli occhi e ci trascinano in un universo narrativo riconoscibilissimo che ha pochi eguali nella filmografia contemporanea. La domanda nel titolo è una boutade provocatoria e la risposta è… sì. Articolo a cura di Fabio Taravella.
Sorge spontanea, guardando il trailer dell’ultima fatica di Wes Anderson, una domanda: “Ne abbiamo ancora bisogno?”. Da grande fan del regista, ammetto, di essermi quasi sentito in colpa anche solo a pensarlo ma razionalmente non è più chiaro se l’affacciarsi all’ennesima copia d’autore possa ancora avere senso nel 2025, momento in cui, inoltre, anche il cinema vive di costanti difficoltà. “La Trama Fenicia”, fin da subito, ci pone al cospetto delle arcinote trovate stilistiche a cui siamo abituati, ma salta all’occhio, l’utilizzo di un bergmaniano bianco e nero in determinati frammenti, declinato in maniera inedita al fine di separare l’ambito color pastello della finzione narrativa da quello esoterico e filosofico della verità assoluta.
La trama, a detta di molti superflua, ha in realtà una connotazione più intima rispetto al solito, soprattutto nell’indagare il rapporto tra un padre dispotico, interpretato da un azzeccato Benicio Del Toro, così come lo era stato nell’episodio più interessante di “The French Dispatch” qualche anno fa, e la figlia novizia, Mia Threapleton, che nel suo silenzioso osservare, illumina la scena e regge sulle proprie spalle un intero mondo fatto di uomini, intenti a lottare con i denti per badare ai propri affari e che involontariamente genereranno esiti comici dal sapore slapstick.
E’ un film, questo, che si prende gioco della società post-capitalistica e che denuncia un patriarcato sempre presente e pressante: ci basti pensare al modo in cui Zsa Zsa Korda obblighi la figlia Liesl a diventare erede dell’”impero” fittizio da lui generato dopo anni d’inganni. Cadono frecce, si parla veloce, ci sono le scatole di cartone come piccole wunderkammer e vige una violenza stilizzata e divertente. In questa composizione fatta di opere d’arte originali (fortemente volute dallo stesso Anderson con l’intento di creare un vero e proprio set museo) troviamo anche Michael Cera ad interpretare Bjorn Lund, tutor norvegese esperto di entomologia, con un passato misterioso e qualche personalità di troppo: una quota ironica tutt’altro che marginale sapientemente interpretata con la sua consueta non recitazione.
Durante i calibrati 105 minuti di lunghezza complessiva si respira l’aria di una certa nouvelle vague francese: in particolare si percepiscono rimandi a “Le Bonheur” della Varda per le sperimentazioni coloristiche applicate e nel montaggio “parlante” capace di trasmettere significati molto più che i dialoghi stessi.
L’utilizzo impressionistico di brani di musica classica, da Debussy a Ravel, contribuiscono all’emanazione di un’atmosfera sofisticata e straniante, talvolta respingente, nel sottolineare le peculiari caratteristiche dei personaggi illustrati.
Si può dire, che no, non è un film necessario ma, c’è un grande ma: immagino che lo spettatore più attento possa gioire di fronte al fluire delle immagini come sempre ben orchestrate, e soprattutto, in un’atmosfera pervasa di religiosità, partecipare monasticamente al gioco che Wes Anderson ci propone, disseminando i suoi quadretti scenici d’indizi atti a stuzzicare e indurre ad una soluzione soggettiva dell’”enigma”, così come avrebbe fatto un monaco benedettino, nel medioevo, di fronte a un testo in latino.