Le storie che puoi ancora immaginare: intervista a Federico Buffa

Volge al termine al Teatro Politeama di Bra la seconda edizione di Artico Club, il progetto attraverso cui Artico Festival porta in città spettacoli, concerti e performance artistiche anche durante il periodo invernale. Artico Club è realizzato dall’associazione culturale Switch On, in collaborazione con il Comune di Bra e grazie al contributo di Fondazione CRC e Fondazione CRT. Articolo a cura di Alessandro Giura.

La rassegna si chiude sabato 15 marzo con Federico Buffa, maestro indiscusso del racconto sportivo, dalle cui narrazioni emerge sempre, competenza, curiosità e una sconfinata passione per lo sport. Con Alessandro Nidi al pianoforte, lo spettacolo Due pugni guantati di nero racconta la storia dietro una delle immagini più famose del Novecento, quella in cui Tommie Smith e John Carlos si trovano sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi a Città del Messico, il 16 ottobre 1968, con i pugni alzati come simbolo del black power, i piedi scalzi a simboleggiare la povertà, la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo: “Ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato.

Smith e Carlos facevano parte dell’Olympic Project for Human Rights e decisero di correre alle Olimpiadi nonostante il 4 aprile Martin Luther King fosse stato assassinato e molti altri atleti avessero deciso di non partecipare.

I biglietti sono disponibili in prevendita su DICE e in cassa la sera stessa dell’evento (28 Euro).

In occasione di questa serata, Federico Buffa ci ha concesso un’intervista in cui ci ha parlato dello spettacolo, di come è arrivato a portare il suo stile di storytelling a teatro e della narrazione sportiva contemporanea.

Quello che è avvenuto a Città del Messico nel 1968 è qualcosa che va al di là dello sport, è un momento immortale e iconico. Quanto è importante riproporlo oggi?

Lo sport è il centro della storia, ma i due protagonisti attraversano 45 anni della storia degli Stati Uniti. Tanti anni e complessi. La risposta a questa domanda te la darebbero direttamente i due protagonisti Tommy Smith e John Carlos e soprattutto l’uomo che li ha ispirati, ovverosia il loro professore di sociologia che si chiama Harry Edwards, un seguace di Malcom X. Nel 2016 Colin Kaepernick, quarterback del San Francisco 49ers si inginocchiò all’inno nazionale per una stagione e da lì non poté più toccare una palla da football. Ecco, la persona che quasi 50 anni dopo ispira Kaepernick è lo stesso professore… perché lo fa? Perché pensa che dal 1968 al 2016 la situazione non è così cambiata. La grande differenza però stavolta la fa LeBron James che alza il telefono, chiama la Nike dicendo che Kaepernick ha avuto il coraggio di parlare per tutta la comunità afroamericana, coraggio che perfino lui ammette di non avere avuto e spunta per lui, ovvero un giocatore che di fatto non giocava, un contratto milionario. Questo per dirti che, in fatto di diritti, le cose non sono cambiate abbastanza tra il 2016 ed il 1968 e quindi è necessario continuare, avendo enorme visibilità con le vicende dei grandi sportivi, a far sentire le nostre ragioni su questo tema.

Com’è stato scavare in questa storia?

L’ho vista da piccolo. Ricordo che chiesi a mia madre “cosa stanno facendo?”, e lei mi diede una spiegazione. Poi sono andato lì, sulle tracce di questa storia per Sky. Sono andato nel campus della San Jose State University a vedere il monumento dedicato a loro, il Victory Salute. Poi incredibilmente due estati fa ero ospite della Menarini a Firenze per un premio e una persona mi disse “guarda, c’è qualcuno di interessante per te”. Mi volto, ed era Tommy Smith. Incredibile. Mi hanno permesso di sedermi affianco a lui e ho potuto parlare punto per punto dello spettacolo, una sorta di fact-checking. E lui mi ha dato materiale. In pratica Tommy Smith è stato anche co-autore dello spettacolo.

Ti stai specializzando nel racconto delle Olimpiadi.

Sì, le preferisco al Mondiale di Calcio, per dire. Questo perchè partecipano più nazioni. Paesi di cui non tutti sanno la collocazione geografica. Atleti che partecipano anche a invito. E tutti danno una presenza o un contributo a loro modo. Per dire, l’aneddoto che racchiude questo fascino dell’Olimpiade me lo ha raccontato Paolo Rossi: quando Bearzot gli dice di tenersi pronto per il Mondiale dell’1982 mentre Paolo è squalificato, l’incipit di Bearzot è stato “se fosse un’Olimpiade non ci penserei nemmeno a chiamarti”. Credo racchiuda qualsiasi tipo di valutazione in merito.

Non sono in molti che hanno raccontato così lo sport e in varie forme, come quella teatrale. Pensi di avere “conformato” lo storytelling sportivo in Italia?

Le storie ci sono da migliaia di anni. Ognuno ci mette il proprio stile, ma concettualmente stai raccontando qualcosa fatto da qualcun altro. Ho detto varie volte a Simona Ercolani che lei ha aperto la strada, rendendo pubblico un archivio immenso di campioni. Lei ha cambiato qualcosa, non certo io.

Cosa ti ha spinto a fare questo tipo di narrazione a teatro?

Guarda, io non ho mai chiesto di fare niente. Le cose che ho fatto mi sono state sempre proposte da altri. Per dire, quando facevo l’avvocato è stato Guido Bagatta a propormi di fare da agente ad alcune atlete americane che venivano a giocare in Italia. O la Scavolini che mi chiede di andare a prendere Antoine Carr e alla fine invece me lo fanno portare a Milano. Oppure quando cambio mestiere un giorno mi chiedono di andare a commentare il college basket a Tele +. Oppure Federico Ferri che mi chiede di raccontare le Olimpiadi a Sky. E arriviamo così, infine, al direttore di un teatro milanese che vede una di queste puntate e mi dice “ma perchè non vieni a fare questa cosa a teatro?” e poi mi cuce addosso uno spettacolo intitolato le Olimpiadi del ’36. Francamente credo ci sia uno sceneggiatore della mia vita che sta lavorando troppo bene viste tutte queste situazioni che mi sono capitate.

«Oggi è più complesso raccontare: è tutto subito in rete. Non c’è la brina del tempo. Tutti sono testimoni di tutto»

Ti manca non fare più le telecronache?

Le Finali NBA sì, non c’è niente come le Finali NBA. Non è neanche comparabile come emozione a quella del Finale del Mondiale di calcio, sinceramente.

E più difficile raccontare le cose sportive che succedono oggi, visto che ci sono più riprese tra media e social network oltre a prodotti televisivi come quello di Netflix sull’ultimo torneo olimpico di basket? 

Togli il punto di domanda. E più difficile. Da quando il mondo della cine-ripresa è così attratto dal mondo sportivo, raccontare lo sport come faccio io è difficilissimo. Io non invidio chi dovrà raccontare la storia di Jannik Sinner quando finirà di giocare. Cosa c’è da raccontare, è già tutto in rete, comprese le partite di quando aveva 14 anni. Non c’è la brina del tempo. Tutti sono testimoni di tutto. Un pochino complicato così.

In questo senso può trarne vantaggio un libro come fascino?

Per certi versi sì. Ma quante sono le storie che non sono state viste nello sport contemporaneo. Raccontare una partita degli anni ’30 determinante si può fare. Non ci sono praticamente immagini di quegli anni lì. Se racconti il gol di Orsi del Mondiale in Argentina puoi farlo perchè non l’ha visto nessuno. Si sa com’è finita, ma nessuno l’ha vista. Orsi tanti anni dopo lo riconoscono a Roma e lo portano al Flaminio per fargli rifare quel gol e lui lo rifà uguale con le scarpe da passeggio. Vedi che potenza c’è in questa storia? Se succedesse oggi qualcuno avrebbe ripreso Orsi con il cellulare mentre calcia. E cosa racconti così? Non c’è mistero. Le storie sono belle se le puoi anche un po’ immaginare, se le vedi e basta perdono molta epica.

Per questo si va a scavare nel lato umano degli atleti oggi?

Sì, perché è l’ultima alternativa che hai. Cerchi le cose che non puoi sapere, sperando le dica lui. Ma anche lì, riprendiamo Sinner, quante interviste avrà fatto in questi anni?

Cosa ti piacerebbe raccontare in futuro?

Teatralmente vorrei raccontare il Grande Torino in futuro. Mi piacerebbe da morire. Una storia che gli italiani conoscono, ma di cui non hanno mai visto un immagine. Per agganciarci al discorso di prima, vedi quanta epica c’è? Facevo i calcoli: quattro anni di quella squadra con quattro campionati vinti e lo stadio Filadelfia teneva 30mila persone. Anche se sempre pieno le persone che andavano allo stadio erano sempre le stesse. Aggiungiamo le trasferte, quella squadra l’hanno vista solo 250mila italiani e le immagini televisive non c’erano. Anche questo rende grande quel mito.

E di atleti dei giorni nostri che ti affascina al punto da raccontare?

Non credo si possa raccontare un atleta dei giorni nostri in un teatro. Ma se devo scegliere una storia sicuramente Michael Phelps. Il più vincente nella storia delle Olimpiadi e una persona che appartiene a quella categoria di esseri umani “un po’ anfibi”. Mi spiego. Il nuoto è da sempre sport olimpico e ci sono persone che danno il meglio dove non sarebbe naturale per l’uomo dare il meglio, ovvero in acqua. Ha un deficit di attenzione che gli rende la vita difficile, ma l’attenzione nell’acqua è irrilevante e così diventa il più grande atleta di tutti i tempi.

Appuntamento il 15 marzo a Bra con Federico Buffa x Artico Club: QUI tutte le info.