Intervista col polistrumentista e produttore musicale siracusano in occasione del concerto a Bra per Artico Festival. A cura di Alessandro Giura.
I concerti acustici hanno un qualcosa di speciale. Solo la voce del cantante assieme ad una chitarra creano una sensazione di intimità in cui il pubblico può immergersi. Se inoltre ci si aggiunge una scenografia semplice e calda, come due faretti non sfarzosi e qualche pianta viene fuori una cornice favolosa.
I ragazzi di Artico, il festival di Bra che continua a crescere anno dopo anno, per riempire questa cornice da regalare per Natale al suo fedele pubblico hanno scelto Marco Castello. E non potevano fare scelta migliore. Il concerto del cantautore siciliano è stato incantevole e intenso. Tanti ragazzi hanno riempito gli spalti del Teatro Politema, dimezzando l’età media degli usuali frequentatori del teatro come ha sottolineato il direttore artistico verso inizio serata. Marco ha cantato dolcemente tutto il suo repertorio.
Parte con “Beddu” e poi prosegue con “Pipì”, “Porsi”, “Polifemo” e tutte gli altri suoi testi che il pubblico conosce a memoria e canta con lui, quasi sussurrando per rispettare l’atmosfera suggestiva. A un certo punto Marco rovescia le carte e invita gli spettatori a non rispettare i posti a sedere, e di avvicinarsi al palco, cosa che il pubblico accoglie con entusiasmo. Andare a vedere i concerti dal vivo ti rendono più a contatto con il musicista, e Marco si è aperto tanto, tra battute e qualche modo di dire in dialetto siracusano. Marco Castello vale le aspettative sul suo conto.
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Forse non ha più bisogno di troppe presentazioni il siracusano Marco. Già il suo esordio “Contenta Tu”, uscito a febbraio 2021 per 42 Records, incuriosiva dal prima ascolto. Del resto cominciare un album con la frase “mi hai disegnato un cazzo sul diario” non può che catturare l’attenzione (Porsi). “Contenta Tu” faceva ben capire lo spirito da cantautore di Marco, capace con una scrittura delicata mondi lontani e accarezzare un po’ la memoria sonora italiana. A questo si unisce un mix di gusto tra il pop naiff, qualche suono da jazz session e una spolverata di brillantini italo-disco. Il suo secondo album “Pezzi della sera”, che ha pubblicato a fine 2023, ha alzato il dibattito intorno a lui confermandolo come uno degli artisti più interessanti e unici in Italia. Un suono più maturo, tante canzoni in grado di diventare un tormentone, una crescita nella scrittura raccontando la quotidianità meridionale, con uno stile poetico e dissacrante allo stesso tempo. E con “Pezzi della sera” Marco ha scelto di comportarsi da vero artista indipendente.
L’album, infatti, è uscito sulla sua etichetta personale e fresca Megghiu Suli ed è stato distribuito a fine settembre solo su vinile, con l’intenzione di portare avanti l’analogico prima del digitale, contrastando la concezione odierna del tutto e subito. L’audacia, sorretta dal fascino dell’idea, ha prodotto il suo più inaspettato effetto: la prima stampa si è volatilizzata in una sola settimana dall’uscita, comprovando la volontà preventiva di saziare la curiosità del fruitore musicale. Dopo l’uscita anche in digitale del disco Marco ha fatto il botto. Ha cominciato il suo tour in giro per l’Italia nel 2024, mostrando quanto è divertente il suo live. E ha continuato a guadagnare rispetto del pubblico e dell’ambiente musicale. Non a caso ha partecipato anche al disco di Mace, uno dei migliori album italiani del 2024. Al Mi Ami 2024 è salito come ospite al fianco di diversi artisti durante i tre giorni al Circolo Magnolia. Dopo l’estate ha cominciato il tour in acustico di cui abbiamo parlato sopra.
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Abbiamo la fortuna di scambiare due chiacchiere con Marco prima del concerto a Bra, grazie alla nostra collaborazione con i ragazzi di Artico, per conoscerlo meglio.
Come stai? Com’è andato il 2024?
Ammetto di essere un po’ stanco, è stato un anno frenetico. Ma anche molto contento. Ho fatto tanti concerti e mi sono divertito. Ma non sono abituato a guardarmi indietro, preferisco guardare avanti. Il 2024 è andato. Fatto.
Il tuo secondo album “Pezzi della sera”, che ti ha consacrato, lo hai pubblicato con la tua etichetta nuova di pacca, “Megghiu Suli”. Incarni l’iconografia dell’artista indipendente?
Guarda sono soddisfatto di quello che abbiamo fatto, partendo dal niente. Questo la dice lungo sul livello delle cose che possiamo fare in Italia. Se uno si sveglia la mattina decidendo di improvvisarsi booking, improvvisarsi etichetta e arrivare a questo livello dal niente, beh, mi rende veramente felice. Spero che questa curva ascendente del progetto continui il più a lungo possibile.
A tal proposito com’è che ti è venuto di chiamare l’etichetta Megghiu Suli?
Gioca un po’ sul dialetto, perché va tradotto in “meglio soli”, ma indica anche “il miglior sole”. Sullo stare meglio da soli quello che ho notato in questi anni è l’iter di mettere all’interno di progetti tendenzialmente semplici molti passaggi. Nel lavoro musicale si crea una sorta di catena dirigente che in realtà fa un lavoro che si può fare da soli. Precedentemente ho avuto due etichette, ufficio stampa, agenzia, distribuzione e chi più ne ha più ne metta. E a un certo punto ho banalmente pensato chi fa da se fa per tre. Ed è andato tutto bene, fortunatamente e mi sto divertendo.
La tua musica è molto allegra e mediterranea, ed è riduttivo inserirti nella bolla Indie. A chi ti ispiri?
Bisogna definire mediterranea, che è un concetto forse un po’ sputtanato oggi giorno. Per me mediterranea è la musica araba. Per esempio, i Nu Genea hanno messo nel loro ultimo disco molte influenze da quella musica oltre a chiamarlo Bar Mediterraneo. Ma ci sta anche. Poi, sinceramente, sull’Indie, se così possiamo chiamarlo, non mi è mai fregato nulla. Non sento di avere niente in comune con gli artisti che si possono inserire in quel filone. Certo, in qualche modo vengo da quel contenitore, ma mi sembra un’industria molto commerciale. Se devo dire chi mi ha ispirato penso a Lucio Battisti, che però non definirei mediterraneo. Io oltre alla questione geografica, da bravo siracusano, non so se posso definirmi mediterraneo, anche perché le sonorità che cerco sono banalmente americane.
Prima di cominciare la tua carriera solista hai incrociato nel tuo percorso Erlend Oye dei Kings Of Convenience. Com’è stato lavorare con un artista internazionale?
Un’ottima scuola e una gran fortuna. Mi ha aiutato anche a capire com’è il panorama fuori dall’Italia e come funziona. Anche perché l’Italia musicalmente è una caccola nel mondo. Mi è servito tantissimo per rendermi conto anche delle cose che non mi andavano bene e che avrei potuto fare da me.
La tua scrittura è tanto delicata quanto ironica. Quanto è importante questo tuo approccio?
Molto importante. La forza della musica italiana è la nostra lingua, che compensa magari una ricerca musicale meno interessante rispetto al resto del mondo. Non in tutti i casi ovviamente. Mi piace rovesciare il testo poetico da tradizione italiana, cercando di far riflettere, di provocare, di inciampare. Così si diventa anti poetico, in qualche modo.
In Polifemo canti “La zia mi chiede quando vado a Sanremo Rispondo: “Chissà””. La canzone è vecchia di un anno. È cambiato qualcosa in questo anno riguardo a questo “Chissà”? Ti interesserebbe partecipare al festival?
Sinceramente preferisco di no. Ci sono più motivi per andare in realtà, perché resta una vetrina importante. Ma non c’è niente di musicale, è pura televisione. E non mi piace la competizione nella musica. E poi ci sono molti fattori che hanno un cattivo odore. C’è molta finizione. Quello che volevo fare lo sto già facendo, e di conseguenza Sanremo non mi interessa. Anche perché poi comincia un teatro di obblighi a cui non mi va di partecipare. E ho l’impressione che la qualità degli artisti si abbassi dopo che vanno a Sanremo, ma è il mio punto di vista.
Chi consigli di ascoltare oggi giorno nel panorama italiano?
C’è tanta carne al fuoco e ho paura di fare un torto non nominando qualcuno. Così su due piedi mi viene da dire i Delicatoni, Altea, i Coca Puma e Toni Pitoni.
Preferisci suonare con la band o da solo?
Sono due cose diverse. Con la band mi sento coerente con il concept che ho pensato. In realtà non adoro l’acustico. Se non c’è da ballare e muovere un po’ il culo mi annoio. Avere basso, batteria e tastiere mi permette di avere la tavolozza di suoni esattamente come la immagino. Però suonare in solo è molto più bello perchè apprezzo di più la risposta del pubblico, che è la cosa più bella di un live. Mischierei le due cose, sono estremamente belle e per motivi diversi. Ma sì, preferisco la band nonostante Megghiu Suli.
Progetti per il 2025?
Spero di riuscire a scrivere qualcosa di nuovo (ride).
E lo speriamo anche noi, Marco.
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Qui un po’ di foto della serata targata Artico by Aurora Fea: