Quanto è ancora attuale Eduardo Galeano

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Il volume antologico “Chiuso per calcio”, edito da SUR e curato nella sua edizione italiana dalla redazione de L’Ultimo Uomo, riunisce tutta la produzione futbolera di Eduardo Galeano, restituendo la figura di uno scrittore e giornalista ancora straordinariamente attuale.

Qualche settimana fa, durante il gala annuale dell’Academy di Patrick Mouratoglou, uno dei coach più apprezzati del tennis mondiale, Ronaldo (Luis Nazario, non Cristiano) aveva rilasciato una dichiarazione non banale: “Amo più il tennis del calcio. È incredibile. Non riesco a guardare le partite di calcio complete. È troppo noioso. Ma posso passare cinque ore a guardare il tennis. È pazzesco“. Alcuni puristi della disciplina tennistica avrebbero molto da ridire (l’omologazione delle superfici degli ultimi 20 anni, le variazioni tattiche come il serve & volley che non esistono quasi più, la standardizzazione del gioco ecc.) ma il succo è questo: per Ronaldo il calcio è diventato noioso. Detto che nonostante tutto riesco ancora a guardare una partita per intero e ad emozionarmi guardando calcio, è innegabile che senta le parole dell’ex pallone d’oro brasiliano come molto vicine. Non so se per un effetto nostalgia che ad un certo punto sembra inevitabile per tutti, oppure perchè effettivamente il calcio sta cambiando e, per quanto mi sforzi, non lo capisco del tutto. Quel che è sicuro è che i pensieri, i racconti e gli aneddoti calciofili di Eduardo Galeano, riuniti all’interno del volume antologico “Chiuso per calcio” (edito da Sur e curato nell’edizione italiana dalla redazione de l’Ultimo Uomo), rafforzano questo senso di malinconia.

Il titolo del libro è anche quello del cartello che Galeano era solito mettere sull’uscio di casa quando iniziavano i Mondiali di calcio. Una chiusura-clausura per un mese di partite, dove – ancor più di altri momenti calcistici dell’anno – il pallone si mischia alla politica e alla società, scatenando dibattiti e facendo emergere situazioni piene di ombre. Chissà cosa avrebbe pensato del Mondiale in Qatar e dei diritti civili completamente calpestati.

“Quando è iniziato il Mondiale, alla porta di casa mia ho appeso il cartello che recitava “Chiuso per calcio“”.

Eduardo Galeano nel suo racconto sul Mondiale 2010 in Sudafrica

L’antologia è divisa in due parti: nella prima, le storie su personaggi o avvenimenti specifici, mentre la seconda si concentra su interviste e discorsi. I racconti di Galeano sono brevi, in certi casi brevissimi, ma lasciano un segno indelebile. Come quello del tifoso che, domenica dopo domenica, porta suo padre a vedere la partita casalinga del Betis. O meglio, l’urna contenente le ceneri di suo padre, che aveva chiesto come ultima volontà prima di morire: “Portami a vedere il Betis del mio cuore”. Alcune storie, come questa, sembrano inventate, ma non importa. Altre, invece, sono documentate: Obdulio Varela, capitano nel Maracanazo (la clamorosa vittoria dell’Uruguay al Mondiale del 1950 contro il Brasile al Maracanã), nato da una famiglia poverissima e mezzo analfabeta, fu uno dei dei principali sindacalisti della huelga calcistica, lo sciopero dei calciatori sudamericani volto a ottenere maggiori diritti per gli atleti e l’introduzione del professionismo. Causa che i giocatori vinceranno, facendo scuola per i tempi futuri.

Una figura come Varela fa riflettere: oggi, più di ieri, i calciatori sembrano quasi anestetizzati. Parlano poco, e quando lo fanno tendenzialmente ripetono filastrocche che ormai hanno imparato bene. Non si espongono quasi mai, eppure sono loro il motore del calcio. Qualcuno timidamente ci prova, ma è più una supina accettazione che una vera e propria reazione di fronte a palesi storture come il calendario di partite folle a cui siamo ormai abituati, oppure la nauseante giostra del calciomercato che non si ferma mai. Ancor più raro sentire parlare qualcuno di temi più complessi, che magari hanno a che fare con la politica e in generale con la nostra società.

“I veri protagonisti dello spettacolo assistono dalla tribuna, come spettatori, alle decisioni prese da imprenditori e burocrati. Chi gioca, per quanto, quando, dove e come: la FIFA modifica i regolamenti, secondo criteri più o meno sensati, e discute cambiamenti deliranti, senza che i giocatori possano mai dire neppure una parola”.

Eduardo Galeano, dal discorso letto all’apertura della conferenza Play the Game a Copenaghen, in Danimarca, nel 1997.

Da quel discorso di Galeano all’apertura della conferenza Play the Game sono passati quasi 30 anni. Nel frattempo, la globalizzazione e la conseguente standardizzazione del mondo ha colpito anche il calcio. Il numero 10 è ormai un esemplare in via di estinzione: ha fatto posto ad atleti velocissimi e super prestanti fisicamente. Giocatori straordinari alcuni, intendiamoci, ma con un’impostazione robotica uniformata. Il risultatismo, l’efficienza, ha preso il sopravvento sulla bellezza e la creatività. Un calciatore come Zidane, che Galeano omaggia nel racconto sul Mondiale 2006, faticherebbe a trovare spazio nelle migliori squadre contemporanee. Per la “malinconica eleganza” di Zizou sembra non esserci più posto.

E se il calcio è il riflesso della società in cui viene giocato, è naturale che dentro e fuori gli stadi ci sia razzismo, omofobia e violenza. Molto si è fatto, ma ancora tanto bisogna fare. Vi ricordate la partita di calcio Treviso-Genoa sospesa nel 2001 per i fischi e cori razzisti rivolti a Akeem Omolade? Ricorda molto la vicenda di Vinicius Jùnior di questi anni. Moltissimi stadi in Europa sono frequentati da razzisti, esattamente come moltissime strade in Europa sono frequentate da razzisti. Stesso discorso per quanto riguarda le violenze che possono scoppiare prima, durante o dopo una partita.

“Lo specchio non ha colpe per il volto che ci si riflette, nè il termometro ha colpe per la febbre. Quasi mai proviene dal calcio, per quanto possa sembrare così, la violenza che a volte esplode sui campi da gioco”.

Eduardo Galeano

Non tutto però è da buttare. Il calcio continua ad essere un mezzo espressivo per i “dimenticati della Terra”. Gente come Maradona, Pelè, Ronaldo, Thuram, lo stesso Obdulio e molti altri, che hanno riscattato loro stessi partendo da condizioni economiche e sociali disastrose. Ma è anche uno straordinario collante sociale, un rito dove migliaia di persone si ritrovano per amore di una maglia. Un business, ovvio (ma cosa non lo è?), ma anche una piacevole distrazione dalla routine quotidiana. Per alcuni una vera e propria religione, l’unica senza atei. Si può cambiare città, moglie, marito, lavoro o partito politico, ma nella mia vita non ho mai incontrato nessuno che abbia cambiato la propria squadra. Con buona pace di intellettuali e snob che lo giudicano negativamente a priori, senza conoscerlo.

“Ho scritto “Splendori e miserie del gioco del calcio” per la conversione dei pagani. Volevo aiutare i fanatici della lettura a superare la paura del calcio, e i fanatici del calcio a superare la paura dei libri. Mai avuto altre velleità”.

Eduardo Galeano

Lungi dall’essere solo uno spettacolo dove 22 individui rincorrono una sfera che rotola, il calcio è “lo specchio del mondo“, come amava ripetere l’autore uruguayano. Ed è con la sua penna semplice ma al tempo stesso incredibilmente poetica e diretta che mi ha ricordato quanto questo sport non sia solo uno sport.