La prima edizione di Ad occhi aperti. Disegnare il contemporaneo, che si è tenuta dal 23 al 26 novembre, riprende il percorso del BilBOlBul di Bologna, evolvendolo. Ecco com’è andata.
di Lorenza Carannante
Nel 2021 il festival BilBOlbul di Bologna ci salutava con la promessa di tornare in una veste nuova, rispondente a necessità che non riusciva ancora a soddisfare soprattutto per via dei cambiamenti del contesto culturale in fermento. Il suo arrivederci è stato raccolto da un’evoluzione organizzativa dell’associazione Hamelin durata due anni, e che ha trovato nel festival del fumetto Ad occhi aperti. Disegnare il contemporaneo l’incastro finale perfetto.
Più che di eredità, siamo davanti ad un naturale cambiamento, un passaggio di testimone dai linguaggi contemporanei che accolgono ed estremizzano le premesse del festival storico, lasciando spazio a forme ed immaginari che travalicano l’ambito del fumetto (pur sempre di riferimento in tutte le sue sfumature). Questa prima edizione si è basata sul concetto presente nel titolo Qui? Come abitare oggi? che richiama a sé una serie di domande anticipate da questo stesso doppio interrogativo. Ammesso che un “qui” esista realmente, abitare, qui? Dove? In un luogo preciso, fisico, in uno spazio definito o definibile? E quando? Oggi: in un presente conosciuto, nel futuro volgendo lo sguardo al passato? Chi ne è il reale protagonista, l’essere umano o il paesaggio? L’architettura, la natura? Le rovine?
Il concetto dell’abitare può e deve in un certo qual modo essere declinato anche ad altri aspetti dell’esistenza, tutto sommato pregnanti per quella che può essere considerata la dimensione fisica di questa particolare condizione. Abitare luoghi e territori allo stesso modo di sensazioni ed emotività, una circostanza ben lontana dal pragmatismo delle abitazioni, ma che ne condiziona comunque l’esistenza: sempre più spesso nella contemporaneità l’essere umano vive un disagio straniante nei confronti del luogo che vive, dovuto soprattutto al fatto di non riuscire ad averne il controllo, o al rendersi conto di non averlo mai avuto.
In un’inquietudine che in questo caso viene decostruita fino a fluire nel disegno, nel segno, che è condizione primitiva, e anche ultima, di abitare uno spazio. Come suggerito dall’omonima pubblicazione curata dall’associazione Hamelin, “Quali forme di disorientamento sperimentiamo nel nostro modo di rapportarci con gli spazi che abitiamo? Come le si può raccontare con le immagini? E ancora: esiste ancora una relazione identitaria tra io e luogo? O piuttosto i luoghi sembrano esistere sempre più senza di noi, o contro di noi?”.
Gli artisti e gli eventi più significativi di Ad occhi aperti
Numerosi gli appuntamenti distribuiti in tutta la città come da tradizione. Oltre ad inaugurazioni, mostre e talk, un ciclo di incontri tra disegno, sociologia e antropologia, e workshop, tra cui quello del fumettista francese Sammy Stein all’Accademia delle Belle Arti intitolato “Costruire il palazzo ideale“, in cui ci si è interrogati sulla progettazione ed il senso del monumento nella contemporaneità.
Tra gli eventi di maggiore spicco rientra la mostra collettiva “Qui? Come abitare oggi?” curata da Hamelin, che dà risposta ad alcune delle domande poste implicitamente e non, prima, durante e dopo l’organizzazione del festival, nonostante non ne voglia trovare. L’allestimento nelle sale superiori del Complesso del Baraccano di Bologna viene reso in modo tale che nessuno degli artisti selezionati prevarichi sull’altro, né da un punto di vista narrativo, né tanto meno stilistico: la tematica dell’abitare certamente sottolinea anche queste differenze che, nella loro evidenza, contribuiscono a mettere in risalto la ricchezza esclusiva della manifestazione.
Di ciascun artista vengono scelti lavori originali in cui ognuno ha raccontato la propria concezione dell’abitare, facendo trasparire una stratificazione dimensionale estremamente interessante, soprattutto ripensando alle problematiche imposte in merito dalla contemporaneità. In questo senso, l’alienazione straniante e a tratti inquietante, surreale, delle figure in bianco e nero del fumettista svedese Erik Svetoft riescono a convivere con la materialità grezza, quasi archeologica, delle ricerche di Stein.
Queste ultime, dal centro della sala – accompagnando lo sguardo in espositori tiranti e funzionali alla visione completa di cinque arazzi-sculture – si fondono, per opposti formali, ai silenzi rombanti delle nature cittadine dell’illustratrice francese Lisa Mouchet, ai loro colori plastici e alla resa tridimensionale di alcuni degli elementi presenti nelle tavole, infantili e drammatici allo stesso tempo, narranti di vibrazioni e realtà sospese. Anche qui la figura umana c’entra poco e non a caso è molto rara da trovare.
Impossibilità evidente anche nei disegni dell’autrice tedesca Marijpol, in cui numerosi corpi sono sovrastati dal paradosso doloroso dell’isolamento e, quindi, della solitudine, in un mondo basato sull’interconnessione tra le cose e le persone. Le figure del fumettista francese Jérôme Dubois, invece, sono inserite all’interno di realtà grottesche: si muovono disorientate e alienate tra architetture e rovine, costanti imprescindibili dei suoi lavori. Lo spazio diventa ancora una volta protagonista straniante di una realtà sempre più spoglia, che non concede alcun tipo di stimolo o riferimento emotivo: tutto sembra ridursi ad uno squilibrio frustrante in cui le figure umane non hanno più luogo per esistere.
Cosa diametralmente opposta, invece, all’umanità delle tracce dei luoghi abitati attorno alla quale ruota l’esposizione di Eliana Albertini e Valentina D’Accardi nella sala antistante, intitolata “Senza essere visti”, in cui ci “tranquillillizziamo” con ricordi reali ed immaginari, fotografati, materialmente presenti o anche solo disegnati. Un’intimità che in parte ritroviamo nella graphic novel di Richard McGuire “Qui”, che viene citata a più riprese, guardando gli stessi interrogativi del titolo del festival, proprio per gli obiettivi che si poneva: partendo dall’intimità di un luogo come il proprio salotto di casa, l’autore ha l’ambizione di raccontare una storia universale partendo da uno spazio assolutamente personale e privato.
Procedendo per attimi vicini e lontani, con un dinamismo temporale intricato in cui le ere si sovrappongono intrecciandosi, in realtà tutto resta statico dalla prospettiva di un salotto, uno spazio intimo e anche un angolo in cui, inquietati e dubbiosi, continueremo a chiederci “Possiamo ancora stabilire un rapporto così radicato con gli spazi che abitiamo?”.