La band di Atlanta torna finalmente a Torino in una delle tappe del lungo tour di supporto all’ultimo album Shook, rilasciato a febbraio di quest’anno. Ancora una volta la loro musica dal vivo è un bagno di sangue e un battesimo nel fuoco. Reportage a cura di Mario Lo Curzio.
Che gli Algiers fossero una delle realtà musicali più interessanti del decennio è cosa nota. Nessuno come loro è riuscito finora a fondere in maniera così egregia le atmosfere gospel da chiesa metodista anni 30, un noise/industrial che guarda molto ai Suicide e una spiccata militanza politica. Sì perché la folgorante musica degli Algiers, il cui nome si ispira appunto alla lotta per l’indipendenza algerina condotta da Saadi Yacef, nasce in seguito agli episodi di abusi e violenza avvenuti a Ferguson e Baltimora negli Stati Uniti per mano della polizia. La loro musica è pura, ed è prodotto di rabbia, sudore a sangue, una forza atavica che affonda le radici nel soul proletario dei bassifondi americani e lo traghetta ne contemporaneo, con l’ausilio di elettronica e venature post-punk.
Arriviamo allo Spazio211 abbastanza presto, giusto per gustarci i torinesi Low Standards, High Fives in apertura. La band, forse un po’ distante dalle atmosfere degli hadliner, fonde emocore e Midwest emo con grande esperienza, sciorinando screamo, tappeti sonori e onirici intrecci di chitarra (con ben 3 chitarristi sul palco).
«Un lungo mantra durante il quale, con l’ausilio della loop station, rieccheggia nella sala la disperata domanda: How the hate keeps passing on? – Come continua a trasmettersi l’odio?»
Attorno alle 23 è il momento di acclamare a gran voce gli Algiers. Sul piccolo palco dello Spazio arrivano Franklin James Fischer (voce e chitarra), Ryan Mahan (basso, elettronica e voce), Lee Tesche (chitarra, elettronica) e il già Bloc Party, Matt Tong (batteria). La band mostra da subito un’energia fuori dal comune, con la potente voce soul carica di effettistica di Franklin, e la mostruosa carica di Ryan Mahan, che si conquista la scena con il suo carisma e il suo muoversi senza sosta sul palco.
La band irrompe con la nuova Irreversible Damage (che in studio vanta la collaborazione di un certo Zach De La Rocha), con il fragoroso canto soul di Franklin a cavalcare una serrata basa elettronica e chitarre tipicamente industrial. C’è subito spazio poi per pezzi estratti da ‘The Uderside of power’ come il rap- industrial decisamente politico di Walk like a panther e il distorto inno gospel di Cry of the martyrs. Gran parte del concerto è stato dedicato al loro nuovo album Shook, un ritorno al viscerale furore attivistico del passato con suoni più moderni e forse meno agguerriti, guardando dunque molto di più alla forma canzone rispetto al passato. Fra queste spiccano il post-punk sperimentale di 73%, i rap quasi old school di Bite back e I can’t stand it e il rockabilly serratissimo di A good man.
I pezzi che però danno la vera scarica elettrica sono pescati dal passato, in particolare There is no year, Ironity. Utility. Pretext e la commovente Blood, che mostra tutta la versatilità e la potenza di Franklin. Prima del gran finale permeato dal marasma noise di Void, gli Algiers ci regalano la stupenda Death March, con un lungo mantra finale durante il quale, con l’ausilio della loop station, ha riecheggiato nella sala la disperata domanda di Franklin: How the hate keeps passing on? – Come continua a trasmettersi l’odio? Quasi una richiesta disperata, a oltre 3 anni di distanza dall’assassinio di George Floyd da parte della polizia americana. Un circolo eterno che sembra destinato a non spezzarsi mai, ma che gli Algiers, con i loro dirompenti live, riescono sempre a rompere. Dando speranza attraverso rabbia e musica.