[REPORT] BE YOURSELF coi King Gizzard & The Lizard Wizard all’Alcatraz

La band di Melbourne veste i panni del pifferaio magico. In una Milano trasformata in Hameln ci invitato a seguirli nel tragitto che dall’Alcatraz ci porta alla loro grotta nascosta, da cui saremo felici di non tornare mai più.

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_di Francesco La Greca

Che gli australiani King Gizzard & The Lizzard Wizard fossero una superba macchina da live era cosa risaputa, ma come soleva dire Tommaso, l’amico complottista di Gesù: “Non ci credo finché non ci metto il naso”. Decido dunque che anche io voglio fare il San Tommaso di turno e, in un fresco dopocena a base di Kebab, mi ritrovo davanti all’Alcatraz di Milano, è il 15 marzo. Quella sera la musica dei Gizzard mi ha teso un tranello nella maniera subdola in cui si ingannano i bambini quando gli si afferra il naso tra le dita e si finge che questo sia ora il pollice. Poco importa che il naso in questione rimanga di fatto incollato al visetto, loro crederanno di averlo perso per sempre in un mix tra paura e stupore divertito, lo stesso che ho provato io alla fine del concerto, ma andiamo per gradi.

La coda fuori dal locale è tanto lunga che per poco non rischiavo di perdermi l’inizio dell’esibizione, cosa comunque successa a tanti in coda dopo di me, perché nella città della Grande Mela di Pistoletto si è sempre maledettamente puntuali, tac.

Stu Mackenzie, l’iconico frontman sale sul palco in bermuda, prima dei suoi compagni, per dare una piccola settata agli strumenti mentre viene proiettato alle sue spalle un messaggio per il pubblico:

“As the weird swarm grows we have to work hard to keep our comunity inclusive.

The mosh pit is a safe place for young, old, big, small and ppl of all genders. If you see any dickheads, alert security.

Look after each other in the there and BE YOURSELF.

Love you all. King Gizz X”.

Dopodiché le luci si abbassano ed il resto della band entra ad imbracciare gli strumenti. Kenny Smith dà il la con un maccheronico “Ciao bela” e il concerto inizia sulle note della sbilenca “Robot Stop”. Il pezzo, che in studio si attesta attorno ai cinque minuti, viene dilatato all’inverosimile attraverso continue “variazioni sul tema” che gli conferiscono il sapore di una suite psichedelica tra movimenti di adagio e bordate improvvise alle quali il pubblico reagisce come da manuale: circle pit, wall of death e crowd surfing, altro che “The mosh pit is a safe place”, per fortuna. La canzone lentamente glissa e si trasforma nella soffice “Hot Waters” dove Stu Mackenzie dà sfoggio di abilità al flauto traverso vestendo per qualche momento i panni di un Ian Anderson dopo aver leccato un rospo psichedelico.

Ora, va detto che la produzione discografiche dei Gizzard è qualcosa di mastodontico, in dodici anni hanno prodotto materiale per ventiquattro dischi e hanno sperimentato generi spesso antitetici, pur mantenendo una coerenza identitaria invidiabile. Qualcuno la chiama “bulimia musicale”, qualcun altro “inarrivabile ecclettismo”, fatto sta che questo eclettica bulimia permea il concerto e spiazza l’ascoltatore. Si passa dall’acid di “Iron Lung” al Crossover di “Sadie Sorceres” dove qualcuno mi fa notare che “sembrano i Rage Against the Machine sotto acidi”, sottoscrivo. Il passaggio tra i diversi registri è incredibilmente coerente complice la vecchia soluzione di pinkfloidiana memoria di legare le code dei brani con le teste dei successivi (mai ascoltata la fine di “The Dark Side of The Moon”?). Forse il momento più straniante è stato durante l’esecuzione di “Planet B” quando mi sono reso conto di essere stato catapultato magicamente e con mia somma gratitudine in un concerto degli Slayer. Il brano è puro trash metal dall’inizio alla fine, il risultato è un’epifania infernale.

I Gizzard hanno stamina da vendere, in due ore totali di concerto non lesinano le energie, sul podio le performance di Stu Mackenzie e Kenny Smith, subito dietro Michael Cavanagh che regala momenti mozzafiato alle pelli durante un assolo di puro godimento. La performance di questi ragazzi è sorprendente ancor più se si pensa che la scaletta proposta ad ogni live cambia radicalmente e attinge a piene mani dalla smisurata produzione del gruppo senza piaggerie nei confronti di singoli blasonati o di logiche promozionali: dell’ultimo disco “Changes”, ad esempio, nessuna canzone è stata eseguita. Sembra dunque che lo scopo ultimo dei Gizzard non sia proporre una serie di canzoni fini a sé stesse ma di accompagnare il pubblico in un viaggio caleidoscopico con tutti i pieni e i vuoti nei punti giusti, eterogeneo e coerentissimo allo stesso tempo.

Tirando le somme: il San Tommaso che è in me ha voluto metaforicamente “metterci il naso” e lo ha perso tra le mani sapienti dei King Gizzard che ora lo brandiscono tra indice e medio, come si fa con i bambini. E poco importa che di fatto il mio naso sia ancora ben saldo alla faccia, io continuerò a credere che i Gizzard se lo porteranno dietro per il resto della loro roboante tournée. L’inganno è riuscito. Tra paura e stupore gioioso esco dal locale con l’intento di tornare al più presto ad ascoltarli, e chissà che per allora non me lo restituiscano, il naso.