La grande mostra torinese, conclusa a fine gennaio, ha fatto conoscere al pubblico italiano l’ultimo decennio creativo di uno dei più grandi fotografi contemporanei. Gregory Crewdson. Eveningside conduce lo spettatore in una potente riflessione sul nostro tempo, attraverso una trilogia che racconta inquietudini, rivelazioni e paure radicate nella “pancia” dell’America di oggi. E propone un interessante dialogo con una serie realizzata dall’artista molti anni fa, custodita finora nei suoi archivi.
_di Alberto Vigolungo
L’opera di Gregory Crewdson si pone all’attenzione di pubblico e critica nel corso degli anni ’90, intrecciando elementi autobiografici alla rappresentazione di un’America che si specchia nelle sue solitudini, tormentata da mute angosce, incorniciate in luoghi che esercitano un forte richiamo all’immaginario letterario e cinematografico e che assumono i connotati di veri e propri set. Al di là di questi riferimenti “immediati”, l’influenza del cinema assume una rilevanza ben più ampia, costituendo uno dei tratti distintivi dello stile di questo fotografo, basato su un attento studio dell’inquadratura, la preparazione meticolosa dei soggetti e una predilezione per il grande formato. Sono questi elementi, coniugati ad una capacità di sguardo “unica” nel sintetizzare opere complesse, in grado di attirare lo spettatore al loro interno, suscitando un fascino del tutto peculiare, in una sorta di curioso cortocircuito che il curatore della mostra Jean-Charles Vergne riassume così:
“Contro ogni aspettativa, si impongono come immagini di film che non esistono, fatalmente bloccate in una durata che non trascorre”. Uno sguardo composito e capace di interpretare i segni sbiaditi della realtà, che da più di trent’anni caratterizza uno dei racconti per immagini più evocativi dell’epoca dei tanti “post”.
Cittadino di nascita e formazione – nato a Brooklyn nel 1962 – Gregory Crewdson compone i suoi grandi “quadri” in provincia, in luoghi legati in qualche modo alla sua vicenda personale: un’America intima, quella delle vacanze della propria infanzia, che coincidono con il verde del Massachussets, e dove ritrovare i frammenti di un discorso (privato e nazionale) che si è interrotto. In questo senso, l’oggetto della trilogia è del tutto evidente: la grande provincia americana, costituita da cittadine e vastissime aree rurali dove il Sogno è ormai ridotto in cenere, e dove il Paese rivela le sue cicatrici più profonde, miti decaduti da romanzo mccarthiano; un’America, per riprendere ancora le efficaci parole di Vergne, “dagli occhi sgranati sulle luci di un sogno evanescente, già svanito, sfiorito”, deposito di visioni lynchiane in un incessante (e inevitabile) dialogo con gli ingombranti simulacri della cultura di massa.
Il progetto più recente del fotografo statunitense si interroga profondamente su questo oggetto, cogliendo da diverse angolazioni tutti i segni della crisi che l’hanno contraddistinto nell’ultimo decennio, e interrompendo un periodo di stasi creativa durato tre anni. A ciascuna delle tre serie corrispondono altrettanti filoni tematici: spiritualità e mistero sono dominanti nelle atmosfere di “Cathedral of the Pines” (2012-14), politica e crisi caratterizzano invece i quadri incentrati sull’intensa dialettica figura/ambiente di “An Eclipse of Moths” (2018-19), mentre lo smarrimento individuale derivato dal conflitto tra essere e apparire è il filo che tiene insieme i ritratti suburbani di “Eveningside” (2022).
La prima serie è partorita da una vera e propria rivelazione, com’era avvenuto circa sedici anni prima con “Fireflies”, maturata nel corso di un’estate solitaria in campagna, in un periodo di crisi simile a quello attraversato dall’artista alla fine degli anni Zero, tanto distante quanto ispirata dalla medesima urgenza creativa. È questo il primo punto di contatto con un lavoro finora mai esposto dall’artista, che qui dialoga con la trilogia a un livello certamente “sotterraneo”, ma non certo privo di spunti. Un dialogo che si svolge ad un livello astratto, come si vedrà più avanti, ma che è innanzitutto emotivo. Come indicato dal titolo, soggetto di queste fotografie sono le lucciole, immortalate nel loro luminoso dinamismo sullo sfondo oscuro della notte. Le variazioni della luce si depositano in questa sequenza di scatti in bianco e nero come tracce minime: un inno all’unicità e all’ineffabilità della natura, sempre sorprendente nelle sue infinite forme e composizioni, anche quando costretta entro i limiti imposti dall’essere umano (che qui coincidono con le pareti di gabbie trasparenti utilizzate dal fotografo). In “Fireflies” si percepisce un assoluto senso di libertà, che l’artista persegue andando anche contro i suoi metodi tradizionali, scegliendo di lasciarsi guidare unicamente dalle sensazioni. Così diverse dal resto della produzione crewdsoniana, le fotografie di “Fireflies” introducono bene il mood con cui il fotografo si accosta al progetto di “Eveningside”, intrecciando con la seconda serie in particolare un legame simbolico piuttosto interessante.
Fireflies (1996)
Pur derivando dallo stesso stato emotivo alla base di quel lavoro, “Cathedral of the Pines” riafferma alcuni elementi tipici del linguaggio crewdsoniano, dallo studio meticoloso della scena alla predilezione per il grande formato, passando per l’uso del colore. Il progetto scaturisce da un’epifania che coglie il fotografo durante un’escursione invernale nei boschi che circondano Becket, Massachussets, luogo a lui caro sin dall’infanzia. E, come molte opere ispirate da una rivelazione improvvisa, la serie reca una simbologia precisa. Il titolo è ispirato dal nome di un sentiero indicato da un cartello la cui vista scatena un vero e proprio processo artistico, attraverso una dinamica non dissimile a quella che mise David Lynch al lavoro su Mulholland Drive, come ricorda la didascalia introduttiva. Ma, al di là di questa suggestiva analogia, legata ad una percezione sensoriale distinta, i riferimenti prevalenti sono qui rivolti alla pittura, come si osserva nelle composizioni e nell’uso della luce naturale, in una serie di fotografie in interni ed esterni dalla vena intima. Tutti questi scatti suggeriscono un senso di smarrimento ed enigma, nelle espressioni attonite di soggetti sovrastati da una natura lussureggiante, e riproducono una dialettica che si manifesta nel conflitto grafico di linee verticali (vedi silhouette dei pini che occupano gran parte delle immagini). Una latrina di legno (nello scatto che inaugura la serie e che ne porta il nome), un materasso abbandonato su cui giacciono alcuni petali (The Mattress) sono oggetto dello sguardo di figure “bloccate” in un momento di rivelazione, come per attendere un segno chiarificatore.
È questo l’elemento comune delle fotografie in esterno che compongono la serie, che brillano di una luce veramente peculiare, la cui forza è tutta concentrata sul parabrezza di vecchie auto parcheggiate in piccole radure ai margini del bosco, punti di aggancio ad un immaginario collettivo che attinge ad una miriade di film e serie poliziesche, e che sembrano provenire direttamente dal mondo di Fargo o Twin Peaks, per tornare a Lynch.
The Mattress (2014)
La matrice pittorica alla base del progetto di “Cathedral of the Pines” si osserva definitivamente nel gruppo di scatti “domestici”, di microcosmi familiari ritratti negli ambienti di piccole abitazioni rurali, appartamenti della middle-class e camere di motel dall’arredo scuro e un po’ demodé. Dando maggiore rilevanza ai corpi, immortalati in piani ravvicinati da una macchina fotografica posta alla loro stessa altezza, l’artista fissa ritratti di solitudini hopperiane alle prese con sentimenti di dubbio e desolazione, in cui la relazione con lo spazio e l’impostazione della luce continua a giocare un ruolo determinante, come si osserva bene nello spleen adolescenziale di The Den. Ognuna di queste immagini racchiude un racconto minimo, rivelando una complessità che si esprime nel suo affollarsi di segni, giocando anche con il tema dello sdoppiamento in Father and Son (2013). Il riferimento alla pittura di Edward Hopper si rende poi esplicito nell’omaggio di The Motel, in cui il candore della casa – quasi la stessa raffigurata in High Noon (1949) – contrasta con la penombra della veranda sotto la quale si trovano due giovani.
The Den (2013)
The Motel (2014)
Il secondo capitolo della trilogia segna un deciso cambio di passo, nell’ambientazione come nelle scelte espressive. Dalle verdi foreste di Becket si passa agli scenari suburbani decadenti di Pittsfield, città vittima di una delle tante crisi industriali che hanno flagellato il Paese a partire dalla fine degli anni ’80, sfondo “esemplare” di quella realtà disorientata e rabbiosa che nel 2016 vide portare in massa il voto delle ex enclave operaie a Trump; la stessa che Stephen Markley ha descritto nelle pagine del suo capolavoro Ohio, non a caso definito da alcuni critici come la “Pastorale americana dei repubblicani”. “L’eclissi delle falene” cui allude il titolo dall’eco vagamente floydiano rimanda fin troppo chiaramente alla condizione di un sogno sbiadito, del quale l’osservatore non può che constatare le macerie. Le immagini restituiscono il senso di una desolazione profonda, in quadri di paesaggi feriti dalla mano dell’uomo in cui campeggiano figure segnate, a rappresentare un’America “stordita” dal trumpismo e dagli effetti della crisi ambientale.
È un’umanità piccola e vagabonda in un deserto di rovine, un punto minuscolo in un universo in disgregazione, come il “punto” grigio e rosso di Travis colto nel suo vagabondare per le lande roventi del Sud-Ovest degli Stati Uniti nell’incipit di Paris, Texas, per tornare al legame con l’immaginario cinematografico tanto caro a Crewdson. L’influenza della settima arte raggiunge qui il suo apice, caratterizzando scatti dalla “stranezza inquietante”, che uniscono ricchezza cromatica a variazioni luminose davvero sorprendenti. Qui, il dialogo con il cinema si realizza soprattutto a livello di linguaggio: le complesse scenografie suburbane, la luce focalizzata su settori definiti della composizione suggeriscono infatti uno studio della messa in scena degno di un grande regista. Se, sotto questo aspetto, “An Eclipse of Moths” si distingue da “Cathedral of the Pines” (soprattutto per quanto riguarda i ritratti in interni), le due sono unite da un tema dominante, che in Crewdson si manifesta su un piano eminentemente simbolico: la “ricerca di un segno salvifico”. Quest’ultimo ritorna nella riproposizione di un motivo emblematico, che rimanda in maniera esplicita alla contemplazione smarrita di The Mattress: i petali sparsi su un materasso abbandonato ritornano in Redemption Center sull’asfalto di un parcheggio deserto, mentre sulla scena incombe una scritta dal valore fortemente evocativo, che dà il titolo allo scatto.
Redemption Center (2018-19)
L’intera serie illumina i caratteri di una realtà marginale ma non per questo povera di storie, con soggetti così coinvolti nell’ambiente che li circonda da divenire elementi stessi di un paesaggio stravolto da fattori di origine tanto antropica quanto naturale, come si osserva in Starkfield Lane (2018-19). I tipi umani qui immortalati si configurano come osservatori di circostanze improvvise (Red Star Express) o dell’obiettivo stesso della macchina fotografica, in un atto che contribuisce in larga misura ad illuminare la valenza politica del progetto. In “An Eclipse of Moths” il declino diventa degrado; i suoi affreschi desolati, popolati per lo più da figure in campo lungo letteralmente risucchiate in un ambiente evidenziato in tutta la sua concretezza, tra camion abbandonati, vecchi depositi ferroviari, parcheggi in rovina, concentrano prepotentemente il presente dell’America, di un Paese incerto e frastornato tra i resti del proprio immaginario e le grida di un populismo destinato a segnare una lunga stagione. Interessante notare come Crewdson conduca le sue riflessioni lasciandosi spesso ispirare da un elemento, insieme metafora e segno distintivo della sua opera: la luce, e il suo rapporto con il mondo animale. Se in “Fireflies” essa costituisce uno spunto, un oggetto di improvviso interesse che sorprende l’artista guidandone il processo creativo, le “falene” diventano sinonimo di ricordo, di un sogno finito da tempo.
Red Star Express (2018-19)
Le 20 fotografie di “Eveningside” completano la trilogia riflettendo un altro cambiamento espressivo, che passa attraverso l’uso del bianco e nero e di una luce molto contrastata (“da film noir anni ’30-’40”), rappresentando soggetti che si pongono in dialettica con quelli degli interni di “Cathedral of the Pines”. Se, nella prima serie, queste figure sono raffigurate in spazi privati, nella penombra di una camera da letto o nel biancore di finestre affacciate su esterni che danno la sensazione di distare anni luce dai loro pensieri e dal loro mondo interiore, le individualità di “Eveningside” sono immortalate negli ambienti della vita pubblica, tra empori e negozi di ferramenta, saloni, piccoli bar di provincia, strade, nell’eterno dissidio, tipicamente americano, fra ciò che si è e ciò che si appare. Elemento di continuità è l’accurata costruzione della scena, con figure perfettamente incorniciate nelle vetrine di negozi, catturati in un “qui e ora” i cui rimandi sono amplificati dalla presenza di insegne commerciali e cartelli. Il processo creativo di Crewdson tende quasi alla visione astratta in una fotografia come Madeline’s Beauty Salon, nel cui volto dall’espressione misteriosa che fissa la propria immagine nello specchio si intuisce la condizione di un’America in cerca di se stessa. Scatti come questo, oltre alla bellissima Morningside Home for Women (2021-22), che ritrae una giovane donna esitante in mezzo ad una strada suburbana, sotto una pioggia torrenziale, a metà tra un taxi che si allontana e la casa-rifugio verso la quale è diretta, mostrano bene come l’artista non rinunci a caricare le sue immagini di una dimensione politica.
Madeline’s Beauty Salon (2021-22)
“Gregory Crewdson. Eveningside” ha proposto l’opera di un grande fotografo contemporaneo, perfettamente capace di padroneggiare il mezzo espressivo e di dialogare con le arti visive tutte. Tuttavia, oltre ad esprimere una prova tecnica di suprema maestria, questa trilogia realizzata nell’arco di dieci anni riproduce magnificamente il tentativo di rispondere ad una domanda precisa: che cos’è l’America, oggi? Il resto decadente di ciò che, almeno in parte, è stata? “Una distopia diventata realtà”, come ha recentemente dichiarato Jonathan Lethem a “La Stampa”? Un grande “animale morente”, per citare uno degli ultimi libri di Philip Roth? Forse, un po’ tutto questo. Ma anche un enorme serbatoio di speranze ed energie nuove. Nel cimentarsi con la sua personale “americana”, Gregory Crewdson non si avventura in una grande descrizione complessiva, preferendo accendere un faro sulla complessità e concentrarsi su ciò che emerge dalla sua luce, componendo una narrazione per frammenti, sottolineando l’importanza di un punto di vista laterale, “dal lato della sera”.