Moonage Daydream: uno, nessuno, centomila Bowie

Moonage Daydream, il nuovo documentario di Brett Morgen, è un tuffo nell’universo profondo di David Bowie, icona musicale ed estetica tra le più rappresentative del nostro tempo. Sviluppata come un flusso continuo di immagini tratte da concerti, videoclip e interviste, la navigazione dell’universo bowiano trascende in un’affascinante riflessione sul tempo e sullo statuto dell’arte.

_di Alberto Vigolungo

“Che cos’è?”: la necessità ontologica di definire il fenomeno rappresentato da David Bowie ossessionava i suoi contemporanei non meno di noi, che qualcosa di ciò che accadde in Inghilterra a cavallo degli anni ’60 e ’70 abbiamo compreso, per il puro beneficio del distacco. Del resto, neppure l’artista si è sottratto a questa domanda, aggiungendo di volta in volta spunti interessanti.

Dopo oltre mezzo secolo dal suo dirompente avvento, di lui restano l’icona, i personaggi sgargianti e surreali, una discografia sconfinata (peraltro in costante aggiornamento, stando alle promesse di chi ne detiene i diritti, venduti interamente quest’anno alla Warner Music per una cifra stimata intorno ai 250 milioni di dollari…). Ma se Ziggy Stardust e il Duca bianco sono destinati a diventare “pezzi” dell’immaginario fin dalla loro enunciazione, l’”essenza” del fenomeno continua a sfuggire ad ogni definitivo tentativo di definizione.

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Ciò avviene probabilmente perché si cerca di applicare a David Bowie una concezione troppo superficiale (e, ahimé, altrettanto comune) dell’ontologia, intesa come discorso su un essere statico e ben definito nella sua forma: non è certamente questa l’essenza di Bowie, che può essere compresa soltanto alla luce di un movimento incessante, e che anzi si manifesta in opposizione a qualsiasi pretesa di forma statica e compiuta. Tutta la sua opera può essere vista come una fuga dalla forma definitiva, una fuga che si manifesta in maniera esemplare nelle sue sfavillanti metamorfosi.

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In Moonage Daydream, Brett Morgen si confronta con questa domanda prendendo le distanze da un approccio ritrattistico, preferendo invece illuminare i caratteri di una filosofia “in divenire”, di una pratica artistica sempre pronta a rimettersi in discussione e a cambiare forma. La trasformazione è infatti la cifra assoluta del lavoro di Bowie, ciò da cui deriva la carica rivoluzionaria della sua immagine, il suo essere stato straordinariamente in anticipo sui tempi, e dalla quale nessuna definizione ontologica dell’oggetto in questione può prescindere.

L’idea della metamorfosi – enunciata nella pratica del travestimento – costituisce così l’elemento primario della sua estetica, oltre che l’espediente con cui indagare il problema dell’identità: in questi termini, l’estetica bowiana passa attraverso un’operazione semiotica cruciale volta alla ricerca di significati “profondi” in un mondo decadente, eccitato da una frenetica rincorsa al successo. Questa ricerca trova pieno sbocco espressivo nel cosiddetto “periodo glam”, durante il quale l’artista esprime la propria creatività attraverso la necessità di un travestimento, superficie prediletta su cui sperimentare la propria immagine, dando forma ad un’estetica del tutto nuova.

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Al tempo stesso, l’idea della trasformazione segna profondamente la sua visione del tempo. Se quest’ultimo costituisce “una delle espressioni complesse”, argomento dei filosofi per eccellenza, Bowie sa che il XX secolo – iniziato con la “morte” di Dio – corre troppo velocemente, e a questa velocità sente di dover adattare il proprio modo di pensare: questa l’attitudine che consente all’artista di cogliere spesso lo spirito di un’epoca prima che essa si manifesti pienamente; non è un caso che il suo talento venga associato alla capacità di sorprendere il pubblico e di anticiparne gli orientamenti.

Interrogandosi costantemente sul senso del proprio tempo, David Bowie intrattiene un dialogo serrato con l’immaginario della cultura di massa come forse soltanto Andy Warhol aveva saputo fare sino a quel momento, attingendo dalla tv (con cui si cimenta in opere di sperimentazione che lui stesso chiama “video-television”) e dal mondo della pubblicità le fonti della sua ispirazione: al fondatore della “mitica” Factory dedica proprio un brano di Hunky Dory (1971), album germinale di un’intera scena musicale.

Come Warhol, Bowie sperimenta in ogni ambito delle arti visive e si confronta con il linguaggio dei media moderni. Come Warhol, Bowie fa della propria immagine un’icona che è il risultato di un processo di accumulo, in una tendenza che lo porta a definirsi un “collezionista” (“Tutto è spazzatura, e tutta la spazzatura è bella” dichiara in un’intervista dei primi anni Settanta, sotto gli occhi stupiti del suo interlocutore): Ziggy è, in questo senso, “postmoderno” prima del postmoderno.

Cogliendo molto bene i tratti di queste metamorfosi, è proprio sulla creazione bowiana più celebre, risultato di un’operazione di accumulo, e sulla sua portata nell’immaginario che si concentra in gran parte Moonage Daydream: con Ziggy Stardust (cui l’artista dedica un album e un tour trionfale) e la sua vocalità dalle sfumature androgine, ora elegante ora sfacciata, accompagnata dalla chitarra irresistibilmente scandalosa di Mick Ronson, Bowie conduce la musica popolare (e il suo pubblico fresco “orfano” dei Beatles) oltre i favolosi sixties, interpretando nelle sue creazioni le tendenze culturali del nuovo decennio (dalla liberazione sessualeall’affacciarsi della questione ambientale, passando per le “ansie” nucleari) e creandone così la musica stessa, come si è spinto ad affermare Simon Reynolds.

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L’interesse per i miti contemporanei (e per il culto della rockstar, in particolare, categoria della quale Bowie fa già pienamente parte alla metà dei Settanta) non può che portare in America, e precisamente a Los Angeles, “capitale dell’industria dell’intrattenimento” per antonomasia. Young Americans (1975) è pieno delle suggestioni derivanti da questo spostamento, il primo dell’artista fuori dei confini patri, e, pur nella sua rilevanza relativa nella sua discografia, segna un punto di rottura cruciale con il periodo “glam” che aveva fatto di Bowie una stella.

In America è già un idolo, ben prima del passaggio al Duca bianco e all’ancora più importante fase successiva, scaturita dall’incontro con la new wave. Da allora inizia a legare la sua produzione a frequenti spostamenti, essenziali per nutrire un’immaginazione sconfinata, e che si concretizzeranno in lunghi viaggi tra Africa ed Estremo Oriente (negli anni Ottanta paragona le sue peregrinazioni a quelle di un viaggiatore beat).

Infatti, anche Los Angeles rappresenta alla fine un mondo che Bowie non sente veramente suo. L’artista sente di aver bisogno di nuovi stimoli e suggestioni, che richiedono una diversa location. Il luogo prescelto è Berlino, linea di separazione tra due mondi ideale per sperimentare nuova musica. Qui, il sodalizio con Brian Eno lo porta a plasmare una nuova forma di linguaggio, aperto all’uso di strumenti innovativi e basato su un metodo di scrittura all’insegna della frammentazione, che lui vuole ispirato allo stile di Burroughs.

Il risultato di questo processo è la cosiddetta “trilogia berlinese”, i cui esiti sono stati spesso equiparati dalla critica a quelli raggiunti a inizio seventies. All’alba degli anni ’80, David Bowie è una creatura pronta a cambiare nuovamente pelle, subodorando un nuovo, importante mutamento della società e della cultura. All’età di 33 anni, con all’attivo già 17 album, sente ormai di aver trovato un punto di equilibrio nella sua ricerca; il suo avvicinamento al buddhismo, praticato in lunghi soggiorni in Estremo Oriente, lo apre ad una visione più positiva.

Il David Bowie degli anni ’80 è attraversato da una consapevolezza “matura”, rivelandosi capace di interpretare le tendenze del mercato: il successo del lungo tour promozionale di Let’s Dance (1983) ne costituisce l’esempio perfetto. Il resto di Moonage Daydream riguarda la parabola di una star per lo più impegnata ad amministrare la propria immagine, prima del sorprendente testamento di Blackstar (2016), pubblicato pochi giorni dopo la sua morte.

Moonage Daydream David Bowie

Sull’ultimo Bowie, artista che ha saputo trarre da una accentuata frammentazione comunicativa alcune delle icone più riconoscibili dell’immaginario contemporaneo, il documentario sfuma in un finale che riporta all’incipit, riflettendo quella visione circolare del tempo propria della cultura greca antica, riaffermata da Nietzsche alle soglie del XX secolo e fatta propria dal Duca bianco: la stessa che caratterizza i fenomeni della moda, inesauribile per definizione; fenomeni che, non a caso, David Bowie ha sempre osservato con un certo acume, intrepretando attraverso di essi i cambiamenti del proprio tempo.

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Regista dalla filmografia già nutrita, Brett Morgen ha rivelato in questi ultimi anni una vena originale nel ritrarre grandi personaggi dell’immaginario musicale: dopo l’apprezzato Cobain: Montage of Heck (2015), ricognizione dei fantasmi e dei demoni del frontman dei Nirvana, realizza con Moonage Daydream un visionario collage audiovisivo dall’alto potenziale immersivo, che evidenzia un uso sapiente del materiale a disposizione, in parte inedito. Così interviste, frammenti di backstage, spezzoni di concerti si combinano in un flusso che ambisce a ricreare la struttura stessa del pensiero creativo bowiano.

Proprio l’intento di “frammentazione” che sostiene il progetto filmico di Moonage Daydream, di un’opera che cerca di parlare lo stesso linguaggio dell’oggetto rappresentato, ne costituisce l’elemento forse più interessante, ma anche un limite in termini di “resa” complessiva. Il gioco insistito con il montaggio come tratto formale predominante spinge infatti il film su alcuni binari morti, anche se la ricchezza visiva delle inquadrature (che dire delle immagini a carattere astratto inserite come sospensioni narrative?) e ovviamente la colonna sonora giungono prontamente in soccorso; e qui, il patrimonio cui attingere non è certo meno vasto dei sogni del piccolo David Robert Jones, da Brixton all’Olimpo del rock.