La stand up comedy “da esportazione” di Francesco De Carlo

Alcuni lo conoscono come “il comico italiano a Londra”, altri come “il pioniere della stand up comedy in Italia”, ma tra TV, radio, web, editoria e spettacoli dal vivo, sicuramente ognuno di noi ha avuto il piacere di ridere per una delle sue irresistibili battute. In occasione delle tre repliche di “Pensieri Stupendi”, in scena all’Off Topic di Torino e organizzate da Torino Comedy Lounge, lo abbiamo incontrato per parlare del suo incredibile percorso professionale, delle sue ambizioni e del fenomeno della stand up comedy.

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_ di Umberto Scaramozzino

So che tu sei abituato a grandi palchi, dentro e fuori dall’Italia, però vedere un triplo sold out qui a Torino è davvero interessante. Come ti sei trovato nella mia città?

Benissimo, c’è un pubblico fantastico. Penso che tutto il merito sia di questa realtà, il Torino Comedy Lounge, e di questi tre ragazzi – Pippo Ricciardi, Antonio Piazza ed Emanuele Tumolo – che stanno tirando avanti una scena bellissima qui a Torino. In particolare è bello vedere che hanno creato un pubblico. Io mi ricordo che l’ultima volta in cui sono venuto qui era il 2019 e avevamo fatto una serata, adesso invece sono tre e probabilmente ci sarebbe stato margine per farne una quarta. Questo fa capire quanto il movimento della stand up stia crescendo e dimostra che se proponi cose interessanti come fanno loro durante l’anno, con cura, allora questo permette anche l’alternarsi di comici che vengono da fuori, che non fanno parte della scena locale. Poi mi piace la scena culturale torinese in generale, anche per la musica. Diciamo che è una città alla quale sono molto legato.

Da romano che ha vissuto anche all’estero, con un’importante esperienza a Londra, come vedi queste realtà locali?

Sono importantissime. Qua c’è lo stesso pubblico che c’è in Inghilterra, perché ci sono circa 60 milioni di persone. La differenza è che lì ci sono tanti comici e tanti luoghi in cui esibirsi, mentre da noi c’è sempre stata carenza. Adesso però sta arrivando tutto: comici, locali, manager e promoter che iniziano ad affacciarsi al nostro mondo. Il tessuto underground si sta creando da solo, in tutta Italia, quindi diventa fondamentale esserne parte attiva. Ti faccio un esempio: ancora oggi, se mi chiedi “preferisci fare 500 persone in una sera o cinque sere da 100 spettatori?”, io continuo a pensare di doverne fare cinque. Economicamente non mi conviene, però non mi interessa, perché è più importante alimentare il motore. L’unico modo per crescere come comico e come autore è questo. Perché molte cose nascono sul palco.

A tal proposito, visto che spesso fai diverse repliche nella stessa location, qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione e quanto spazio trova nei tuoi spettacoli?

L’improvvisazione è fondamentale, perché ti permette di appoggiarti al flusso di coscienza, quindi tocchi corde interiori e ti sorprendi. E spesso quei contenuti non restano ancorati a quel momento specifico, ma entrano a far parte del processo di scrittura. In questo modo diventa tutto più naturale, segui le tue logiche e dai sfogo alla tua libertà creativa. Sul palco io scrivo tantissimo, l’ho fatto anche a Torino infatti. Dalla prima alla terza serata ho formalizzato almeno quattro battute che resteranno.
Questo è uno spettacolo che è quasi alla fine del suo ciclo naturale, anche perché è incentrato sulla pandemia, e se metto a confronto la prima e l’ultima serata del tour mi viene da pensare che almeno l’80% di quello che dico di oggi sia diverso e nuovo. Perché mi sono fatto coinvolgere dai palchi che ho calpestato e che mi hanno ispirato.

«Ho fatto un programma in TV, un libro, uno special di Netflix. In pratica sono andato all’estero per svoltare, ma ho svoltato poi davvero in Italia per il fatto di essermene andato. Un paradosso. E adesso qui mi trovo anche un circuito molto più sviluppato, che dà ulteriori stimoli. Però mi guardo allo specchio e mi dico: “io ho il sogno di New York”. Lì si chiuderebbe un ciclo»

La pandemia ha sicuramente avuto un ruolo chiave per voi. Sembra evidente che l’interesse del pubblico verso ciò che ha da offrire il tuo mestiere sia cresciuto sensibilmente. Credi che sia diventato un bisogno?

Assolutamente sì. C’è un “prima” e “dopo” in questo Paese rispetto alla comicità. Si è creato un pubblico molto più giovane, che ha contenuti sul web, ma ha bisogno dell’esperienza live, che è venuta a mancare nella sua totalità per due anni. Adesso quindi le persone non vedono l’ora di uscire e di andare a vedere i comici, che nel frattempo si sono fatti avanti, soprattutto autori giovani. Il mercato si sta anche autoalimentando, motivo per cui è importante non essere mai invidiosi e gioire dei successi dei colleghi, perché questo costruisce il nostro pubblico, crea “affezionati” alla comicità che è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.

Nell’ambiente spesso ti vengono affibbiati epiteti di un certo peso. Tipo: “pioniere della stand up comedy”. Ti sei accorto di aver effettivamente condizionato alcuni colleghi e che effetto ti fa?

Mi fa sicuramente molto piacere. Noi abbiamo iniziato nel 2009 a parlare di questo mondo, ormai è un po’ che ci lavoriamo, ma sono contento perché vedo che c’è un ricambio generazionale. Se sono riuscito ad essere d’aiuto ad altri comici, così come innegabilmente molti di loro sono stati d’aiuto per me, ne sono felice. Credo sia importante condizionarsi sempre a vicenda. Onestamente non so se sono stato un “pioniere”, quello che so è che sicuramente non ho esaurito ciò che ho da esprimere. C’è ancora tanto da fare qui in Italia, ma soprattutto io ho ancora molto da fare all’estero. Tornerò a Londra, voglio andare a New York. Ho delle ambizioni smisurate sul mio percorso, soprattutto in inglese, quindi forse mi interessa più dove andrò, che non il fatto di essere stato tra i primi.

La tua ambizione si nota anche dal fatto che cerchi sempre nuovi modi o ambiti per esprimerti. Per esempio, che ruolo ha la musica per te?

Sempre crescente. Ho messo su un progetto, appoggiandomi ad un duo che si chiama “i Tu”, formato da Federico Leo e Sebastiano Forte, e siamo diventati un trio. Facciamo uno spettacolo comico basato su delle canzoni che abbiamo scritto da zero; una sorta di concerto che fa ridere. E ha avuto successo! Ora sto cercando di portare questo gruppo fuori da Roma. Quindi durante il mio tour di stand up ne sto approfittando per portarmi una chitarra sul palco, accennare alcune di queste canzoni e avvisare: “la prossima volta che mi vedrete, sarà con i Tu”. Spero di creare un bel giro.

E secondo te, da buon pioniere, c’è margine perché questo diventi un nuovo fenomeno o lo vedi come un percorso a margine?

Lo vedo come una cosa a parte, dove non ho ambizioni, non mi interessano i soldi. Poi io sono troppo scarso, ma mi piace tantissimo e mi diverto come un bambino. Mi basta questo, e penso che chi viene ai miei spettacoli lo veda e funziona bene così.

Quindi la parte più importante legata al tuo futuro resta l’esperienza all’estero, immagino.

Penso che se vuoi diventare bravo, devi andare dove stanno i migliori. Per quanto sia brutto da dire, questo vuol dire fuori dall’Italia, per ora. In America, Inghilterra, Sudafrica. Ci sono comici più preparati, che lo fanno da più tempo, che lo fanno più spesso, davanti ad un pubblico più esigente. C’è una visione della comicità più sofisticata. Tutti questi elementi fanno sì che fuori i comici siano più forti. E se ti misuri con i più forti, cresci. Se vai a Londra, Los Angeles, New York, ti capita pure di esibirti insieme a Eddie Izzard, Louis C.K., Chris Rock, tutti i più grandi. A me ancora non è mai successo, ma è una possibilità concreta che può permetterti di fare un passo in più. Personalmente sto facendo di tutto per essere un bravo comico e ho capito che è come essere un atleta: devi allenarti.

E a livello di sfida, invece? Credi sia stato più impegnativo e soddisfacente funzionare all’estero, in inglese, dove il livello è più alto, oppure funzionare qua, dove l’ambiente è ancora in fase di sviluppo?

La cosa curiosa è che quando ho iniziato questo lavoro avevo pensato che qui in Italia non ci sarei mai riuscito, quindi sono andato a Londra per necessità, non tanto per cercare una sfida. Davo per scontato che qui non fosse possibile, ma fortunatamente mi sbagliavo. Infatti quando ero all’estero mi hanno chiamato proprio dall’Italia, chiedendomi di fare un racconto della mia storia. Ho fatto un programma in TV, un libro, uno special di Netflix. In pratica sono andato all’estero per svoltare, ma ho svoltato poi davvero in Italia per il fatto di essermene andato. Un paradosso. E adesso qui mi trovo anche un circuito molto più sviluppato, che dà ulteriori stimoli. Però mi guardo allo specchio e mi dico: “io ho il sogno di New York”. Lì si chiuderebbe un ciclo.

Visto che la tua formazione universitaria e le tue prime esperienze professionali erano nell’ambito delle scienze politiche, quindi tutt’altro mondo, da dove fai partire questo ciclo? L’avevi previsto?

Nulla di tutto questo era previsto, ma come si dice: “nun se butta via niente”. Tutto ciò che ho fatto mi è servito in qualche modo. Questo è solo il più recente di tanti cicli che si sono chiusi solo per poi aprirne di nuovi. Sono molto contento di tutto quello che mi è successo e dei miei cambiamenti, perché in qualche modo mi hanno forgiato. Mi porto dentro tanti ricordi, tante esperienze, che non sono solo professionali ma anche di vita. E quando sei sul palco poi viene naturale raccontarle. Sul palco non puoi fingere, devi raccontare chi sei. E io voglio continuare a farlo sempre meglio.