Le zucche analogiche degli Helloween

Kai Hansen e Micheal Kiske sono di nuovo delle zucche!  Scalpitano sia i vecchi defender che le nuove leve; la curiosità  è tanta, accompagnata da un po’ di paura di un revival  nostalgico. Helloween è un album che può essere vissuto in  svariati modi, con tantissimi argomenti di cui parlare, alcuni  evidenti ed altri celati tra i righi del pentagramma e in mezzo ai  cavi dell’attrezzatura impiegata nella produzione, in una sorta  di caccia al tesoro che ha tenuto il disco in heavy rotation fissa.  Vediamo, perciò, di scovare le perle che i sette di  Amburgo hanno sparso nei 14 brani metal tra i più attesi del 2021.  

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_di Paolo Carrone

Avessi scritto questo pezzo a caldo, dopo il primo ascolto, probabilmente avrei concluso  chiedendomi che necessità avessero avuto gli Helloween di fare un album così. Non solo i brani mi sembravano troppo semplici, ma avendo ancora in mente l’impatto  esplosivo di My God-Given Right, sarebbe stato davvero difficile parlare di questo  lavoro con facilità

Dal secondo ascolto in avanti,  sentendo il disco in loop per giorni, l’impressione che lasciava era in continua evoluzione: instillava una genuina voglia di ripartire da Out For The Glory subito dopo la chiusura  di Save My Hide. Come una specie di sussurro costante, Helloween entra in testa e lì  rimane.

In fondo, andando a riascoltare l’intera discografia della band, nessun album è così  diretto da confermare la prima impressione: Better Than Raw, per esempio, ha subito  colpito forte e con il tempo ha raggiunto vette di apprezzamento fuori dal normale e, se  avessimo ascoltato i commenti di alcuni membri della band riguardo a The Dark Ride,  oggi sarebbe un disco da dimenticare, mentre, invece, nasconde un songwriting di  altissimo livello con piccoli dettagli nascosti, di quelli che si distinguono dopo anni di  ascolto. Questi sono solo due esempi, ma si potrebbe applicare la stessa teoria a tutti i  dischi della band di Amburgo ed Helloween non ne è esente.

Uno dei motivi principali per  cui questo album ha guadagnato punti ad ogni ascolto è il fatto che scorre davvero bene,  con brani brevi o lunghi, veloci o cadenzati, che canti Kiske o che canti Deris e, su questo  punto, si apprezza moltissimo l’intercambiabilità dei due cantanti; in quasi tutti i pezzi c’è  alternanza e ogni cantante viene impiegato nelle parti che più gli si addicono, con  l’eccezione di Kai Hansen che, essendosi lui stesso definito “un piccolo nano arrabbiato e  sotto acidi” compare nei momenti più inaspettati con strilli o toni cavernosi portando un  pizzico di follia all’interno di un contesto, in fin dei conti, molto ordinato. 

Due singoli hanno preceduto l’uscita dell’album, Skyfall e Fear Of The Fallen. Questi due  assaggi hanno leggermente condizionato l’ascolto iniziale, fondamentalmente perché il  primo ci è stato offerto in versione ridotta, solo 7 minuti e 19 secondi contro i 12 minuti e  11 secondi che poi avremmo trovato nell’album. 

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Skyfall sembrava il classico brano del Kai Hansen post-anni 2000, con qualche guizzo di  freschezza che ha creato un buon hype nei confronti della versione completa. Fear Of The Fallen è stato davvero una sorpresa: diverso da Skyfall, in pieno stile  compositivo di Deris, con una struttura molto varia non è risultato pesante per essere un  singolo che dura 5:38 anche grazie ad un bellissimo lyric video. 

Alcune versioni in vinile del singolo di Skyfall contenevano la traccia Indestructible, che  avrebbe anche fatto parte del disco, mentre altre versioni presentavano Skyfall completa,  ma nella alternative vocal version.  

In sostanza ci si è trovati a ridosso dell’uscita con tre brani, uno diverso dall’altro – e non  di poco – che facevano sperare in un disco che non fosse un semplice revival dei due  Keeper Of The Seven Keys, possibilità che era dietro l’angolo sia per il rientro in  formazione di Kiske ed Hansen, sia per altri dettagli, ad esempio la zucca presente nel  logo che è tornata ad essere quella degli anni ’80. 

Out For The Glory con il suo inizio fuori dagli schemi che porta ad uno sviluppo molto  classico che ricorda i Keepers è forse l’unico brano che lascia la stessa impressione ad  ogni ascolto: un bel pezzo che però non ha l’impatto giusto per essere l’opener. Tocco di  classe di Kai Hansen che urla “Iron minions” alla sua maniera dopo il ritornello.  

Si passa a Fear Of The Fallen. Ormai la conosciamo, ma ora è nel suo habitat naturale e  spicca ancora di più il fatto che sia stata scritta da Deris: il suo songwriting è  inconfondibile e dal 1994 non ha mai perso freschezza ed inventiva. Già quando era  uscita da sola dava l’idea di essere un brano solido e sentendolo all’interno della tracklist,  la sensazione è confermata. Le strofe sono tutte diverse tra loro e, come Deris ci ha  abituati, la parte cantata inizia sul sesto grado, creando una tensione che deve per forza  risolversi in un ritornello grandioso senza essere stucchevole. 

Deris è autore di altri quattro brani in questo album: Mass Pollution, Rise Without ChainsCyanide, Save My Hide, ognuno con un’anima differente; dal brano in stile rock ’n’ roll alla  cavalcata veloce, fino all’apice di Save My Hide. Un carillon suona una melodia una volta  sola; poi si ferma. “I just save my hide” canta Deris, mentre le chitarre ritmiche riprendono  ciò era suonato dal carillon e già solo il fatto che quello che si è sentito ad inizio brano  non sia la melodia principale, bensì la ritmica, rende questo un gran pezzo, destinato ad  entrare nei cuori degli amanti delle finali ed oscure tracce degli album degli Helloween.  

Ufficialmente il disco si conclude con Skyfall, ma le due bonus tracks sono talmente belle  che è difficile considerarle a parte.

Ascoltando Best Time ci si può domandare come mai non sia stata usata come singolo  dato che è un brano breve, incalzante e con un ritornello che rimane in testa dopo la  prima ripetizione, in particolare il verso “yesterday is history, tomorrow is a mystery”. La  risposta possono darcela solo i produttori, ma sicuramente aver scoperto questo brano  solo con l’uscita del disco lo rende ancora più speciale. Sascha Gerstner ha sempre  composto canzoni intense e molto curate, ma questa è ad un livello superiore; come  direbbe Walter ne Il Grande Lebowski: “la sua bellezza è la sua semplicità”. Ogni melodia  si memorizza subito, ma non stanca mai e i dettagli della produzione arricchiscono la  composizione in ogni suo aspetto. Possiamo sperare che questo brano diventi un  classico da concerto. 

E’ stato strano rendersi conto che nella stessa canzone si trovano la strofa più bella  dell’album seguita dal ritornello meno incisivo. E’ un peccato, perché Angels è davvero  coinvolgente, ma il ritornello va a spezzare l’aspettativa creata da una strofa che, per la  sua struttura ritmica ed armonica, tiene chi ascolta su un ipotetico bordo della sedia. Non  per questo va scartata a priori; da notare il bellissimo intermezzo accompagnato dal  pianoforte seguito dall’assolo che, ricordando le atmosfere di Nabateea, porta ad uno  special molto suggestivo che carica a dovere per il finale della canzone. 

Cinque pezzi tra cui è davvero difficile scegliere il migliore – non che ce ne sia una reale  necessità! – contengono, probabilmente, le vere chicche compositive di questo discoRise Without Chains, Indestructible, Robot King, Cyanide, Down In The Dumps.  Già soltanto il 5/4 seguito dal 6/4 in mezzo al ritornello in 4/4 di Rise Without Chains, che  inganna in pieno chiunque cerchi di cantarla ad intuito, vale ogni suo singolo ascolto.  Poi abbiamo il leggero anticipo di sogni sillaba di cy-ya-nide rispetto al metronomo, in un  ritornello in cui già Dani Loeble alterna cassa in ottavi e terzine, senza parlare della  seconda voce di Kai Hansen quasi costante in ogni strofa e il basso che suona più note  delle chitarre in tutta Indestructible; infine non dimentichiamo che Michael Weikath ha  ancora qualcosa da dire e qui regala ritmiche assolutamente astruse con accenti in  levare sia in Robot King che in Down In The Dumps. Su questo gruppo di brani si  potrebbe scrivere potenzialmente all’infinito, ma è anche bello lasciar maturare il tutto e  cercare di scovare altre gemme ascolto dopo ascolto. 

Attesissima, anticipata e circondata da un’aura magica, quella del primo singolo, Skyfall si  presenta al mondo, anticipata dall’intro Orbit, come un brano potenzialmente infinito.  Ogni sua sezione è autonoma e al contempo si lega perfettamente con la successiva.  All’interno si trovano tutti i trademark delle composizioni di Kai Hansen: il ritornello in  maggiore che per l’ultima ripetizione sale di un tono, gli assoli a metà tra solisti e twin  solos, i break lenti seguiti da ritmi velocissimi a cui non si è stati preparati in precedenza,  special terzinati, il “somewhere out in space” nascosto dallo sfumato che ha fatto  sollevare il sopracciglio ai fans dei Gamma Ray (l’avrà fatto apposta?!) e, in particolar  modo, un finale lunghissimo che è, forse, la sezione più suggestiva dell’intero brano.  Insomma, non nascondiamolo, quando Kiske urla “when the sky falls” un piccolo brivido  attraversa la schiena. 

Piccola nota sulla produzione: molti dettagli sono stati lasciati nel retro del mix, pronti per  essere scoperti. Ascoltando i pezzi in un contesto con poca efficienza acustica come può  essere l’auto, è difficile andare a scovare le sottigliezze. Per fortuna Nuclear Blast ha investito sull’uscita di questo disco realizzandone tantissime  versioni diverse: CD, doppio CD, vinili colorati, vinili con ologrammi, picture disc e persino  l’audiocassetta. 

Normalmente un disco contemporaneo non necessariamente rende meglio in vinile, ma  questo non è un disco normale. A differenza dello standard dell’industria metal,  Helloween è stato realizzato completamente in analogico, senza simulazioni di  amplificatori, senza effetti digitali nemmeno in fase di mastering. Il risultato è, senza mezzi  termini, splendido. Si possono elencare all’infinito i vantaggi del digitale, ma alla fine  quando ci si trova davanti ad un prodotto full-analog, la differenza si sente, eccome.  Nessuno strumento – tenendo presente che ci sono tre chitarre ritmiche, innumerevoli  leads e assoli, cinque cantanti e chissà quanti livelli di cori – è compresso al punto da non  distinguerlo (come purtroppo era successo per un disco magnifico come 7 Sinners), i  dettagli degli effetti sono studiati al millisecondo, dal flanger all’inizio di Best Time a  qualsiasi ripetizione di delay che si può trovare. E poi la magia delle chitarre: ascoltandolo  in cuffia si sentono le chitarre ritmiche ben divise destra-sinistra, quindi si capisce che  suono hanno; quando suona una chitarra da sola il suono di per sé non è bellissimo, ma  quando sono tutte insieme diventa meraviglioso, con un equilibrio incredibile. Questo  ricorda l’incanto di Live After Death degli Iron Maiden dove, se si isolano la traccia destra  e quella sinistra, i suoni sono tremendi, ma insieme diventano una delle opere più belle  mai prodotte.  

Tutto il discorso sulla produzione ha una sua importanza anche nell’ascolto su vari  supporti dato che il Cd risulta leggermente più schiacciato e pompato sulle frequenze  basse, mentre il vinile ha un chiarezza impareggiabile dando il giusto spazio a tutti gli  innumerevoli dettagli che rendono bello quest’album. 

L’ombra dei due Keepers si è dissolta; sì, quattro membri della band su sette sono gli  stessi di quei due capolavori, ma questo non ha portato al temuto revival.  Helloween è album con un’identità specifica, autonoma, non un’accozzaglia di brani  composti giusto perché era richiesto. E’ carico di musica e questa è sempre una  bellissima caratteristica. Come si diceva in apertura, quello che davvero stupisce è la  semplicità con cui si fa ascoltare e riascoltare e il merito è di tutto quello che si è detto  fino a qui, oltre che ad innumerevoli altri fattori e particolari che sicuramente si  scopriranno con gli ascolti successivi.  

Inoltre, si inserisce perfettamente in quella che è la discografia della band, non risultando  forzato, scarno o pacchiano; aggiunge colore, un colore che non c’era, alla tavolozza  dalla quale il gruppo può attingere. Quasi ogni canzone è potenzialmente un nuovo  classico e il tutto lascia molta voglia di vedere i brani suonati in sede live. 

Gli Helloween sono, da anni, un punto di riferimento per le band di metal melodico (o  power metal, che dir si voglia); questo disco full-analog composto da brani più  immediati , ma mai banali, può ricordare come non sia per forza necessario iper-produrre  e lanciarsi in creazioni basate principalmente sui tecnicismi. Quindi, se mai ci si fosse  posti la domanda “nel 2021, gli Helloween possono avere ancora qualcosa da dire nel  panorama metal?”, la risposta è “sì”. 

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