La Svizzera che non ti aspetti: tra cronaca e finzione, ironia e tragedia, Mazzi racconta di un atipico “Fight Club cavalleresco” elvetico negli Anni Ottanta… A cura di Alessio Moitre.
In talune circostanze mi spingo a pensare che ogni generazione dovrebbe allinearsi sotto lo stemma della irripetibilità. Termine fuorviante se improvvidamente interpretato. Però quanta polpa contenga il fascino dell’aspirazione è ad uso di una manciata. Forse avventati, scriteriati nelle azioni ma talmente energetici da interessare persino una comunità. Raramente pure il mondo intero. Restiamo in prossimità, perché una certa carica pare ci fosse negli anni ottanta, in Ticino, una Svizzera italiana che nella sua morfologia sembra puntare il dito alla milanesità. Anche da lì provenivano torme di soggetti che Manuela Mazzi nel suo “Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni ottanta” ci disegna, senza velleità nazionalistiche, venire a contatto con i protagonisti dei suoi ritratti e della sua saggistica che l’autrice vuol far passare anche per scanzonata.
Indubbio che il libro verrà adoperato come resoconto decennale di un fenomeno che oltre i confini è sconosciuto nonché, soprattutto per mentalità italica, deputato irrealistico. Perché quando mai si è sentito che nella terra pacificata ed unita da fine duecento, possano avvenire scazzottate o megarisse provocate da bande di motociclisti o appiedate, picchiatori in gruppi o isolati, vendette o fatti casuali scaturiti per una colorazione di noia?
Una curiosità urticante mi ha convinto della bontà della pubblicazione della Laurana editore e ad approfondire gli anni ottanta ticinesi, cavalcati da un personaggio su tutti, leggendario nel suo campo, Nitro o Rocky, fautore di frasi che alloggerebbero innate nella bocca di un De Niro formato premio, di un Al Pacino in “Carlito’s Way”. Anche se son certo che se leggesse questa recensione, puntualizzerebbe che lui non ha recitato mai nella sua vita. I fatti lo comprovano.
Come anche per i nomi degli altri, battezzati: Glicerina (sodale del Nitro, come logica terminologica vuole), Spaccapietre, Swan, Boom Boom Rolly, LouLou c’est moi e faccio torto se non proseguo, ma sono vari e tutti incaricati dalla scrittrice di dettagliare un decennio che sia per accaduto che per fatti, ha preso a cazzotti la storia, ridefinendola a livello mondiale, facendola sbandare verso nuove complicanze o suggellando cambiamenti. Ma qui siamo altrove, i cazzotti però si moltiplicano fino a raggiungere lo zenit a metà degli anni ottanta con un numero di risse che movimenta la placida polizia ticinese. Nel 1984 il processo ad una delle bande simbolo del periodo, i Gpl (Giovani picchiatori di Losone) detta il probabile avvicinamento con gli anni novanta che avrebbero visto affievolirsi notevolmente tali fenomeni, anche se la più volte evocata rissa del Lido di Locarno (1988) doveva ancora sopraggiungere.
“Ticinesi contro svizzeri tedeschi, manco a dirlo”, in abbrivio della sottosezione, ormai sul fondo del libro, l’autrice riconferma un dato che sarà ormai chiaro al lettore giunto sin lì: la territorialità come riconoscimento. Che sia cittadino o provinciale, in un mantenimento di confini e limiti più immaginari che pratici. Ma in quel “paleolitico individuale”, che la penna di Armando Cavazzoni individua, c’è una debordante vitalità, aggressiva (le vittime lo ricordano) e visceralmente identitaria che a distanza di decenni, i protagonisti, intenti nel lavoro e accasati, riecheggiano con dell’affetto, facendoti sorgere il sospetto che non fosse solo la gioventù a farli battere tra di loro. Che avessero sognato, anche all’epoca, dell’altro.