“Papà” di Régis Jauffret: come un romanzo può restituire un padre?

A volte la fantasia supera il reale, lo plasma e lo modella secondo nuovi ricordi, emozioni e relazioni. Così Régis Jauffret, il “creatore di storie, inventore di destini”, nel suo ultimo libro, Papà, edito in Italia per Clichy, oltrepassa il confine tra ciò che poteva essere e non è stato. E ciò che avrebbe voluto vedere nella figura di suo padre e che, invece, ha solo sognato.  

_di Federica Bassignana

Cosa sarebbe il passato se fosse un verdetto senza appello? Régis Jauffret lo domanda a sé stesso e la risposta che indaga e insegue con estrema urgenza diventa un libro, un romanzo. Papà si delinea come un appiglio essenziale e necessario al ricordo della figura paterna dell’autore che si rivela così potente nell’ingombrante percezione della sua assenza. Così, lo scrittore e drammaturgo francese reclama il diritto di sognare il proprio padre e si oppone alla sentenza dell’immutabilità del passato, riscrivendolo

«Solo il romanzo ha il potere di modificare ciò che è stato».

Dove la realtà impone i suoi limiti, subentra, quando lo si concede con un sollievo quasi inaspettato, l’invenzione. Con questo libro, Jauffret restituisce a sé stesso la figura del padre che ha sempre sognato, colmando con la sua scrittura le speranze disattese, le mancanze subite, i sogni traditi. La letteratura diventa un potente strumento per superare il confine tra il passato, indelebile e immutabile nella sua essenza, e la fantasia, infinito dei mondi possibili, ed esaudisce il desiderio dell’autore di “felicità inventata”, quella che non aveva avuto il coraggio di immaginare prima di allora.

La suggestione avviene in un momento preciso: è il 19 settembre 2018 e Jauffret rivolge uno sguardo distratto a un documentario della Francia di Vichy durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma ciò che rapisce la sua attenzione sono i dettagli famigliari di un palazzo, quello dove è nato e cresciuto a Marsiglia, e l’immagine di due agenti della Gestapo che portano via un uomo in manette, suo padre. Un fotogramma di sette brevi – improvvisi e inattesi – secondi conduce Jauffret nel sussulto di una vertigine di smarrimento, scardinando le fragili certezze che aveva realizzato negli anni su suo padre. Di lì, una lenta discesa dell’autore verso la voragine di interrogativi: chi era davvero Alfred Jauffred? C’era altro dietro a quella figura distante, egoista, assente, chiusa in sé stessa per sordità o semplice anaffettività?  

Régis Jauffret affonda le radici della scrittura in un groviglio di ricordi che cerca di districare, tentando di fare ordine negli abissi della memoria della sua famiglia, avvicinandosi al suo passato per comprenderlo più nel profondo, e forse per la prima volta. 

«A cosa servirebbe rievocare il proprio padre morto una trentina di anni prima se fosse con il crudele e pretenzioso progetto di volerlo fare apparire per quello che è stato? Io voglio addomesticarlo, levigarlo, sfumarlo, lucidarlo come un paio di scarpe vecchie ripescate in soffitta. Non vorrei essere costretto a condannarlo senza rimedio, a farne un padre inutilizzabile, impossibile da redimere».

E la letteratura ha il potere di compiere anche questa salvezza, offrendo la seconda possibilità che la vita non concede. Allora, il passato non è più un verdetto senza appello, ma può essere ancora riedificato attraverso il romanzo, giustificando la finzione in nome di una realtà che ha deluso le aspettative. Il romanziere ridefinisce i contorni della figura del proprio padre per permettergli di riprendere il posto nella memoria della sua infanzia, per rivendicare quello spazio nella misura in cui lui l’aveva sognato. 

«Alfred, meriteresti di morire una seconda volta.
Eppure, scrivo questo libro per resuscitarti più bello di quanto sei stato».

Un libro potente, da scoprire, che lascia il lettore con il fiato sospeso in bilico sulla linea sottile tra il reale e l’immaginazione, concedendogli il beneficio della caduta. 

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