Le sfaccettature del dolore indagate da Erica Mou

La cantautrice pugliese ha esordito nella narrativa con “Nel mare c’è la sete”, edito recentemente da Fandango Libri: una storia di fratture, perdita e ricomposizione di sé che, nel giro di ventiquattro ore e quattro pasti, condurrà la protagonista a nuovi equilibri e consapevolezze inedite.

_
_di Roberta Scalise

 

«Ciao cubo, rieccoti. Lo so che non sei mai andato via ma la sera a letto ti sento di più, come il fischio nelle orecchie dopo una serata in discoteca, che non ti accorgi di avere finché non ti sdrai nel silenzio. La notte lo percepisco meglio, questo pezzo di marmo, quest’ancora pregiata e fredda che mi schiaccia.
Ed è ovvio che il vento, quel giorno sulla scaletta, non avrebbe mai potuto spostarmi.»

Ventiquattro ore, quattro pasti e una vita da rivalutare, mettere in discussione, soppesare, osservandone i risvolti da tutte le angolazioni, acuendo le riflessioni e ampliando i bordi delle ferite. Ventiquattro ore, quattro pasti e una svolta di prospettiva funzionale per recuperare il possesso e il senso di sé, ricomponendo gli spazi interiori frantumati e spogliandosi dei fardelli emotivi altrui, che, inevitabilmente, diventano anche i propri.

Ventiquattro ore e lo spazio per un racconto catartico, denso e accorato: quello che Erica Mou ha dispiegato nel suo esordio narrativo, intitolato “Nel mare c’è la sete” ed edito recentemente da Fandango Libri, e di cui ha indagato, con generosa curiosità speleologica, anfratti e interstizi di dolore. La cantautrice pugliese emette, infatti, la sua voce, tramutata in parole e inchiostro, mediante un intenso flusso di coscienza, in cui ogni dettaglio è cullato con pathos e rifrange significati personali e inediti, arricchiti di virtuosismi linguistici e poesia.

Protagonista dell’intreccio è Maria, titolare di un negozio e di una vita che non desidera più, ingarbugliata nel ritmo di un’esistenza che le stringe l’anima e il corpo e che risulta, ormai, crogiolo di quotidianità stanche, insensatezze e ombre. Amata a senso unico da Nicola, Maria reca dentro di sé un «pezzo di marmo» germogliato venticinque anni prima e chiamato Estate: il nome della sorella morta a 3 anni, e sotto i suoi occhi, della cui scomparsa si ritiene, da sempre, intima responsabile.

Con le sue espressioni calibrate, eleganti e perpetuamente in bilico tra sorriso e serietà, la Mou ci offre, così, lo scorcio di una donna spezzata, confusa e soggiogata da colpevolezze e ricordi remoti, che troverà, tuttavia, la strada per tornare a pulsare nelle intenzioni e, infine, ricomporsi e accettarsi – anche attraverso un’ulteriore frattura decisionale che risulterà foriera di nuove consapevolezze e riappacificazioni, con il passato e con il futuro.

Abbiamo intervistato Erica Mou per addentrarci nei significati e nei meandri emotivi della sua narrazione, scritta e musicale.

In primo luogo, da dove è scaturita l’urgenza di redigere un romanzo? E quali sono state le fasi precipue della sua gestazione?
Sognavo da sempre di farlo. Ma la musica è così, si prende tutto lo spazio. Quindi in questi primi dieci anni di carriera, non sono riuscita mai a dedicarmi ad altro che non fossero le canzoni. Poi finalmente, quando mi sono trasferita per un anno in Inghilterra, ho trovato la giusta distanza per cominciare a scrivere questa storia, che mi è balenata in testa e che ho afferrato al volo, sentendo fosse quella giusta.

Tema cardine della narrazione è il dolore, correlato al disequilibrio interiore, ed esteriore, che reca con sé: qual è, secondo te, la funzione della sofferenza? E come si può tornare a splendere dopo numerosi “secchi di vernice nera”?
Per citare una frase contenuta nel romanzo, “il dolore insegna che soffrire fa schifo”. Però, credo fermamente che tutto, tutto, possa trasformarsi in seme per una rinascita, che qualunque colore possa mostrare sfumature diverse, inedite, rivelatrici. Lo penso tanto anche in questi giorni pieni di nero che il nostro mondo sta attraversando. Magari ne usciamo diversi, magari ne usciamo migliori. È più importante come reagiamo, rispetto a quello che succede.

Pervasiva e determinante per l’intreccio è anche, e soprattutto, la morte prematura della piccola sorella della protagonista, Estate: da dove trae ispirazione la scelta di un argomento così ostico? E quali sono – se sussistono – i suoi significati più profondi?
Volevo scrivere una storia schietta, poco comoda, in cui non ci fosse mai un confine netto tra scelte giuste e sbagliate, tra bene e male, tra personaggi positivi e negativi. La morte di Estate è un evento che segna la vita della protagonista, Maria, e che le appiccica in fronte un adesivo con su scritto “assassina”. Ma credo che niente sia etichettabile, liquidabile con una sola parola. E, in questo arco narrativo di ventiquattro ore che trascorriamo immersi nei pensieri della protagonista, ne abbiamo la prova.

Il senso di colpa è, inoltre, un sentimento che, nel corso della vita, interessa tutti noi: dal momento che è indagato con estrema acutezza, vi sono echi provenienti da tue esperienze personali precedenti? E, a tal proposito, quanto vi è di Maria in Erica, e viceversa?
Tante cose di Maria sono mie. Ma non siamo la stessa persona e abbiamo biografie diverse. Coincidiamo nei sentimenti più che nei fatti. Per poter scrivere di esperienze che non ho provato mi sono aggrappata ai sentimenti che invece ho sentito e che sento forti e chiari dentro di me, ai miei sensi di colpa, ai miei distacchi, alle mie sofferenze, al mio modo di guardare, alla mia scarsa capacità di ricevere più che di dare. Un po’ come si fa nel teatro, per interpretare un personaggio, con la reviviscenza.

Quali sono stati, nel corso del lavoro, i tuoi maggiori punti di riferimento letterari – e, in caso affermativo, musicali?
Mentre ho scritto il romanzo non ho letto niente, credo. E non ho ascoltato neanche tanta musica, in effetti. Eppure tutto sedimenta e riappare quando si crea. Alcune canzoni sono anche citate esplicitamente, come “Tonight” di Sybille Baier, “Estate” di Bruno Martino o il disco “La voce del padrone” di Battiato.
E senza dubbio anche tanta narrativa, ma ho difficoltà a individuare chiaramente dei titoli. Posso dirti che uno dei miei romanzi preferiti in assoluto è “Lo straniero” di Camus: sarebbe bello che in questo libro ce ne fosse anche solo una briciola. Poi c’è anche da dire che ho iniziato a scrivere “Nel mare c’è la sete” pochi giorni dopo essermi laureata, per cui avevo la mente strapiena di cose interessantissime e illuminanti. Sono certa che studiare mi abbia ispirata molto.

Il testo è anche corredato di filastrocche e giochi di parole poetici e ingegnosi: da dove deriva questa scelta? È, in qualche modo, il tentativo di inserire delle “parentesi sonore” nel formato romanzesco?
Da una parte sì: quelle parentesi rappresentano il mio lato più cantautorale, più vicino alla poesia che alla prosa. Ma, in realtà, le poesie del romanzo – che hanno tutte come titolo una parola composta – costituiscono il nucleo originale del libro. Qualche anno fa avevo cominciato a raccoglierle, volevo scrivere una sorta di sillabario – come quelli meravigliosi di Goffredo Parise –, fatto tutto di parole composte che srotolassero il proprio significato in poesie e racconti. Poi la vita mi ha portato altrove, ma l’idea continuava a ronzarmi in testa e, finalmente, ha trovato il suo spazio qui.

Per quanto concerne proprio la “forma lunga”: che cosa hai scoperto di te nel corso della stesura del romanzo?
Che potevo farcela. Non me l’aspettavo. Potevo andare dritta senza mille ripensamenti. Senza avere paura del tempo. Poi ho scoperto che mentre scrivo mi parlo nella testa a voce altissima: ho amato sentire il suono delle frasi, lo spartito creato dalle parole che a volte guidano loro, decidendo autonomamente in che modo abbracciarsi.

Inevitabile è, poi, la correlazione tra alcune dichiarazioni legate al mare e presenti sia nel testo, sia nei tuoi brani – come «Voglio tornare a essere mare, voglio tornare all’acqua certa che mi riconoscerà», nel romanzo, e «Mi perdo sempre, ma so sempre da che parte è il mare», di “Dove cadono i fulmini”. Quale valore o significato ha, per te, il mare? Quale ruolo riveste nelle tue narrazioni? E com’è nata l’idea di questo titolo, “Nel mare c’è la sete”?
Sono nata e cresciuta sul mare. E ho sempre avuto paura dell’acqua, del potere che ha su di me. Ne sono affascinata e terrorizzata. Perciò ho voluto che Maria fosse una grande nuotatrice, per poter andare dove io ancora non riesco. Eppure è proprio il mare che mi orienta, che mi riporta sempre alla parte più profonda di me stessa, al mio istinto. La vita dei personaggi di questo romanzo è piena di acqua che però non li disseta. È un’acqua attraente, estetica… se così si può dire. Devono tutti andare alla ricerca di una sorgente diversa, però, se vogliono nutrirsi e sopravvivere. “Nel mare c’è la sete, non ti fidare della quantità”.

Infine, il romanzo è stato ispirato ad alcuni tuoi lavori musicali? O pensi li ispirerà, in futuro?

Entrambe le cose. Chi conosce i miei dischi può divertirsi a trovare tanti punti di contatto tra il romanzo e le canzoni, sia intere frasi sia approfondimenti di immagini o concetti che avevo già trattato in musica. E, allo stesso tempo, tra le pagine del libro ci sono elementi che anticipano altre canzoni, che non ho ancora mai pubblicato.

Ancora, come stai trascorrendo questo delicato momento di quarantena? Come sono cadenzate le tue “ventiquattro ore” e come proseguono le presentazioni letterarie online?
Sono a casa con il mio compagno, a Toulouse, in Francia. Ascolto, leggo, ballo male, canto, suono, cucino male, mi alleno, lavoro, mi perdo e mi ritrovo in pochi metri quadrati. L’umore è un’altalena. Il tempo pare essere scandito dal cibo che segna lo scorrere delle ore, proprio come le quattro parti in cui è suddiviso il romanzo, ognuna dedicata a un pasto della giornata. Ma in realtà sono sempre impegnatissima con la promozione letteraria che, nonostante tutto, è bellissima anche online. È emozionante “incontrare” i lettori, leggere per loro, confrontarci. Avere questa connessione così intima in un tempo così sgretolato, usare l’arte allo stesso tempo per evadere e per stare.

Attualmente stai lavorando, poi, al tuo sesto album in studio: che cosa puoi anticiparci al riguardo? E per quando è prevista la sua uscita?
Difficilissimo dire quando uscirà: in questo periodo fare pronostici è un’impresa titanica! Però, posso anticiparvi che lo sto producendo insieme a MaJiKer – polistrumentista e arrangiatore inglese con cui ho già collaborato in passato – e che è quasi pronto ma ancora aperto per incursioni di nuove ispirazioni e di idee. Riascoltando il materiale, ho trovato qual è il filo che unisce queste canzoni e sto cercando di capire quando e come metterci un punto.
Intanto, non vedo l’ora di poter finalmente iniziare il tour legato al romanzo! In questi giorni sto sperimentando online le “letture cantate” unendo parti del libro alla musica: ho molta voglia di portare questa formula dal vivo, di ritornare nelle librerie e nei bellissimi contenitori culturali del nostro paese.