La raccolta, pubblicata in Italia da 66thand2nd, tratteggia i contorni frastagliati e dolorosi dei traumi, delle fratture e delle contraddizioni che interessano le famiglie e i loro nuclei, districandosi tra separazioni, malattie, abbandoni repentini e irresponsabilità.
_
_di Roberta Scalise
«Tornai ad abbassare lo sguardo. Di qualunque cosa si trattasse, non la volevo sapere. I miei genitori mi sembravano così infantili, nel loro bisogno d’amore. A mio parere non potevano che incolpare se stessi, se io non ero capace di darglielo. Per troppo tempo ero stata la fune tesa tra loro, il messaggero. Ad un tratto non volevo più saperne. Ero disposta a mollare gli ormeggi e vedere dove andavamo ad approdare».
Figlia di due emigrati indonesiani, Miriam costituisce il raccordo tra due genitori spaesati, impauriti e soverchiati dalle fatiche della vita, ritrovandosi, così, costretta a fronteggiare le instabilità emotive di un padre «smarrito nel passato» e inabile a condurre una vita dignitosa e soddisfacente. Un’incapacità quasi ontologica che, nel dispiegarsi degli eventi, condurrà la donna a fare – inevitabilmente – perno su se stessa, annegando tra incertezze e desideri disattesi e trovando, però, in questo intrico di sentimenti e pensieri contrastanti, una risorsa per reagire, proveniente dall’interiorizzazione del fallimento genitoriale e dalla sua trasposizione in resilienza e coraggio.
È quanto si evince da “La mappa della città”, il racconto conclusivo e, forse, più emblematico della raccolta della scrittrice canadese – di origini sino-malesi – Madeleine Thien, “Ricette semplici”: esordio letterario dell’autrice – finalista al Man Booker Prize, nel 2016, con “Non dite che non abbiamo niente” – redatto nel 2001 e da poco pubblicato, in Italia, dalla casa editrice 66thand2nd.
Al suo interno, uno scrigno di sette perle rare, ossia: storie e sfaccettature del dolore, della perdita e dell’inadeguatezza – emotiva e pratica –, che, pur nella loro brevità, trovano espressione in racconti fluviali di emozioni e flussi di coscienza cosparsi di venature in rilievo di dettagli e nostalgia.
Ed è proprio la tristezza rassegnata e consapevole dei ricordi a costituire il fil rouge del volume, qui esplicata mediante una struttura che si ripete costante e che ne rivela l’essenza in un andirivieni perpetuo di digressioni, scorci di scene quotidiane e considerazioni riferite sia a un passato che non è più, sia a un presente che, nella sua fugacità, urge per tramutarsi in un futuro nebuloso ma carico di auspici.
La Thien, infatti, consente al lettore di addentrarsi, con delicatezza e assenza di giudizio, nei microcosmi di famiglie e rapporti d’amore, amicizia e sorellanza gracili, incompleti e tormentati, dando voce, così, a storie – narrate perlopiù con la lente della prima persona – emotivamente intense, sincere e immediate, nelle quali le latenti faglie relazionali si frantumano con veemenza, e all’improvviso, rivelando tutto il loro fervore e la loro conseguente pervasività.
E i cui protagonisti sono – nella maggior parte dei casi – genitori manchevoli, instabili e danneggiati, che contrastano con l’acuta maturità e la giudiziosa coscienza dei figli con i quali si confrontano e che, spesso, rifuggono le loro responsabilità in favore di atteggiamenti infantili e contraddittori, ignorando urgenze e raggiungendo una certa «perfezione in questo, nell’arte di vedere qualcosa ma convincersi che non c’era» – come dichiara la protagonista di “Alchimia”.
In un gioco di rinunce e incomprensioni che, quindi, giunge a inficiare il benessere dei bambini e degli adolescenti coinvolti: individui abbandonati e ignorati che, una volta cresciuti, forniscono una forma al proprio passato traumatico e ne plasmano i lasciti in una patina opaca attraverso cui osservare, con distacco, emozioni e ricordi dolorosi. E dalla quale provengono, tuttavia, anche la forza e la resilienza necessarie per abbandonare un antico universo costituito da abnegazioni e colpe inesistenti e abbracciare, così, la pienezza dell’esistenza, pur con tutte le sue difficoltà, le sue irragionevolezze e le sue ferite.
Un affresco di incongruenze e sensibilità che, dunque, irretisce per la dirompente forza evocativa e che Madeleine Thien si rivela in grado di dipingere mediante una scrittura tersa, luminosa e, al contempo, greve e introspettiva, impreziosita da una perizia di particolari – rivolta, in particolar modo, ai contesti in cui i personaggi sono immersi e ai loro delicati gesti – e da pennellate narrative tanto vivide da riuscire a focalizzare e a tratteggiare i nodi cruciali di relazioni umane sgretolate, fragili e incapaci di sorreggersi.
E delineando, così, una sequela di “Ricette semplici” – dal titolo del primo racconto – che, nella loro durezza, contribuiscono ad affrancarsi dagli altrui errori del passato e a volgere lo sguardo, con una triste felicità, alle evoluzioni del presente.
«Se ci fosse una maniera, una ricetta, la seguirei. Una manciata di riso nella mia mano aperta, chicchi da setacciare in cerca delle impurità, da togliere una alla volta. Infine, essere contenti di quello che resta».