[INTERVISTA] La fusion del MalaFede Trio

Jazz nostrano da esportazione: alla scoperta del trio Malaman-Bertuzzi-Quagliato tra collaborazioni prestigiose e un nuovo disco in arrivo nel 2020. 


_di Lorenzo Giannetti

Abbiamo fatto una chiacchierata con la band, per parlare della loro concezione di jazz e di progetti presenti-futuri.

So che il trio nasce da un’idea del bassista Federico ma vi chiedo: come vi siete conosciuti/incontrati? È avvenuto, “da copione”, in ambito jazz, in qualche locale? Oppure vi conoscevate già da tempo, poiché magari avete condiviso una fetta delle vostra formazione? 

Ci siamo conosciuti più o meno nello stesso periodo, nel 2009 circa; all’epoca i social non erano così diffusi ma tra gli addetti ai lavori ci venivano nominati spesso proprio i nostri nomi.  In quel periodo avevamo iniziato a suonare assieme in un paio di progetti come turnisti, anche se non tutti e tre insieme. L’anno successivo lavorammo nel tour in Canada con Paolo Belli consolidando un grande rapporto umano e musicale; con noi c’era anche l’amico e grande tastierista Francesco Signorini, e insieme  si diede vita al primo quartetto: il Malafede Project. Poi, in maniera molto naturale, ci si è spostati verso il trio visto che anche il tipo di sonorità che questo ensemble offriva ci piaceva, era qualcosa che stavamo cercando.

A proposito di formazione: direste di avere un background simile o ci sono delle importanti differenze nei vostri percorsi e magari anche nel vostro approccio alla musica e allo strumento suonato? 

Abbiamo un background simile con molte aree comuni come il jazz, la fusion e il progressive ma qualche differenza c’è ed è forse questo a contaminare il nostro sound. Federico ha una naturale predisposizione per la black music e il funk, frutto di un bagaglio molto più ampio ma che hanno segnato una prima direzione; Riccardo ha portato le contaminazioni del rock più ricercato e introspettivo, ma anche della tradizione compositiva del jazz, con particolare attenzione all’aspetto armonico; Ricky è un attento cultore del suono ed ha colorato il sound con contaminazioni della musica elettronica, etnica e del nu-soul. Sicuramente essere cresciuti insieme in questi ultimi 10 anni ha contribuito a creare un’identità più definita.

In tal senso, ci date qualche punto di riferimento in più, meglio se contemporaneo: quali sono gli artisti che ascoltate maggiorente al momento e dai quali, diciamo, traete ispirazione? 

La domanda è molto difficile in quanto oggi ci sono veramente tantissimi progetti che meriterebbero di essere menzionati. Fortunatamente uno dei nostri punti forti che ci accomuna è la curiosità e ognuno attinge da vari artisti, potremmo fare una sintesi di quelli che ci accomunano menzionando Bill Frisell, Robert Glasper, Jacob Collier, Dominic Miller, Snarky Puppy, Louis Cole e moltissimi altri.

Il disco ha quattro ospiti di grande spessore artistico: ci raccontate come sono nate queste collaborazioni? Con quali altri artisti vi piacerebbe collaborare in un futuro prossimo? 

Con alcuni siamo amici di vecchia data come con Francesco Signorini, che ha composto per noi Flush, e Roberto Manzin, uno dei più quotati sassofonisti del panorama internazionale. Per il brano d’apertura dell’album è stata coinvolta da Ricky una grande voce del nu-soul italiano: Serena Brancale, con la quale in seguito abbiamo più volte condiviso il palco. A chiudere il quartetto degli ospiti c’è una conoscenza di Federico, Donald Hayes, straordinario musicista che ha collaborato tra gli altri con Stevie Wonder, Chaka Khan, Beyoncé. In futuro ci piacerebbe collaborare con  Paolo Fresu, Stefano Bollani, Jacob Collier, Cory Henry.

Avete suonato abbastanza spesso anche all’estero: che differenze notate nell’approccio al jazz e più in generale alla musica dal vivo fuori dall’Italia? E conseguentemente com’è a vostro parere la situazione qui da noi? C’è un club in particolare che vi ha colpito per atmosfera e risposta del pubblico, in giro per il mondo? 

All’estero abbiamo notato che c’è molta più apertura alla novità, c’è molto più entusiasmo per la musica strumentale ed anche molta curiosità. Sicuramente merita una menzione Sligo Jazz, in Irlanda, per l’incredibile entusiasmo che ci ha trasmesso. Anche lo stesso italiano all’estero, ha una reazione diversa, un po’ meno ingessata. Pure in Italia, fortunatamente, ci sono Jazz Club molto belli che richiamano un pubblico molto attento ed appassionato.

Questo disco è molto elaborato, come lo state proponendo in tour? E, in ultimo, la domanda di rito sui progetti futuri. 

Abbiamo scelto un set molto smart, il live l’abbiamo concepito senza l’utilizzo di sequenze e cercando di arrangiare i brani in modo da sfruttare al massimo la nostra strumentazione. Stiamo vivendo un momento particolarmente bello e ricco di appuntamenti, le location sono varie, si passa dall’intimità dei club al grande impatto sonoro sui palchi dei festival; ciò che non cambia è l’interplay che ci concede questo setup. Per il futuro sono in calendario molti concerti all’estero e sicuramente il secondo album, siamo già impegnati nella scrittura di nuovi brani, e la voglia di sperimentare è molta.