Lo spettacolo firmato da Piergiorgio Milano percorre una via atipica e ardita, al crocevia tra teatro, danza, circo e performance. Andiamo alla scoperte delle premesse e dei possibili risvolti di “White Out”, in attesa dell’appuntamento alle Fonderie Limone di Torino, il 18 e 19 ottobre.
«L’ambizione più alta di questo spettacolo è trasformare l’alpinismo in un linguaggio artistico, in modo che il pubblico possa vivere da vicino la neve, le tempeste, gli strapiombi verticali di roccia. Ricreare in teatro il fantastico, enigmatico fascino della montagna; quella fiammella che gli alpinisti si portano dentro cercando di non scottarsi troppo» – Piergiorgio Milano
L’intenzione di White Out
Liberamente ispirato agli scritti degli alpinisti Walter Bonatti, Giampiero Motti, Enrico Camanni, Jon Krakuer, Joe Simpson, Mark Twight, Reinhold Messner, e dal sociologo francese David Le Breton, White Out nasce dall’idea di trasformare l’alpinismo in linguaggio artistico. L’alpinismo è una disciplina dalla storia profondamente umana che appartiene a tutte le nazioni. White Out è il risultato di un dialogo a tre voci, in cui i personaggi condividono la pura e semplice aspirazione alla vetta. Parla di uomini e donne mossi dall’incessante intento di proseguire la via a tutti i costi; di tentativi impossibili, del disperato continuare, salire e camminare, nonostante ogni difficoltà, nonostante tutto.
Lo spettacolo analizza le tecniche dell’alpinismo e dell’arrampicata e le rielabora in linguaggio danzato.
Tra le altezze, il tempo si dilata, diventa monotono, immenso, per poi tornare a riflettersi nei gesti indispensabili del quotidiano e nei racconti condivisi a fine giornata. Nei movimenti emerge l’eleganza sobria dei gesti necessari, l’energia che irrompe dall’esaurimento delle forze, la follia del parlare a sé stessi per rimanere svegli nei momenti critici. L’intenzione è far vivere allo spettatore un’esperienza fatta di muscoli, sudore, fatica, peso, sforzo e volontà, per far “sentire” queste presenze nel buio di un teatro. White Out è l’omaggio a tutti gli alpinisti che sono spariti, o che scelgono il rischio di sparire, nel bianco senza fine delle altezze. I conquistatori dell’inutile.
Circo, danza, alpinismo: una creazione multidisciplinare
Nei suoi libri il sociologo francese David Le Breton parla di Passione del rischio” e “Fuggire da sé”, definendo il “Biancore” – ovvero la volontà di scomparire – come una delle più grandi tentazioni contemporanee. Nell’alpinismo si definisce White Out la perdita totale di riferimenti spazio-temporali e la conseguente impossibilità di avanzare o retrocedere. Una condizione di stallo dall’aspetto gentile ma che può portare a conseguenze estreme, in montagna come nella società, come alpinisti avvolti in una bianca cortina, in cui cielo e terra hanno lo stesso colore e dalla quale non si può più uscire.
Attraverso il potere evocativo della danza, White Out inventa un linguaggio in cui il corpo è veicolo della tensione del rischio, delle condizioni estreme e dell’ambizione umana. Le due azioni di base dell’arrampicata, camminare e salire, si accompagnano alla dilatazione temporale e alla ripetizione, creando uno schema eterogeneo in cui l’estetica dei gesti e la spettacolarità dell’estremo sono alla portata di tutti. L’acrobazia è presente in ogni movimento ma non lo domina, mentre i materiali tecnici diventano il pretesto per creare luoghi visionari capaci di originare immagini evocative e potenti.
Il personaggio femminile gioca un ruolo chiave nello spettacolo.
Da un lato, incarna la sensazione di essere fuori luogo in un ambiente dominato da canoni tradizionali, mascolini e forzati. Dall’altro, la sua condizione è una sfida creativa; “aprire nuove vie” è un’attitudine che si riflette nella vita, è la rivelazione di qualcosa di nuovo trascende ogni limite di linguaggio o nazionalità. La sua fragilità è davvero la sua forza, la spinta nascosta che trova la giusta motivazione per camminare senza affondare, in ascolto dell’istinto vitale che vuole continuare a esistere.
Moschettoni, rinvii, funi e imbraghi, sono elementi coreografici sradicati dal loro utilizzo reale e che danno vita a nuove possibilità espressive.
A favore dell’illusione visiva di una gravità impossibile, anche gli sci diventano un oggetto dall’equilibrio instabile a favore di un’espressività intensa e originale. Attraverso l’essenzialità della corde-lisse, unico attrezzo in scena riconducibile al mondo del circo, la montagna è simbolo di verticalità, vertigine e vuoto. La sua linea retta, al confine tra cielo e terra, diventa riferimento delle vie aperte da chi scala, una condizione di “altrove” impossibile da percepire quando si è a terra.
La drammaturgia utilizza un editing cinematografico dalla cronologia scomposta.
Lo spettacolo prende vita da un’alternanza d’immagini che oscillano tra realtà e immaginazione e si sviluppa attraverso il principio della frammentazione e dei flashback. La voce narrante accompagna il pubblico alla scoperta del proprio immaginario personale. Gli interpreti sono fedeli alle loro reali personalità, non c’è raffigurazione, né pantomima. Nel rappresentare un universo legato alla montagna, la fisicità è spinta al suo limite, aderisce al presente e ne incarna le emozioni. Sono veri i pesi negli zaini, così come le difficoltà di ancorare i rinvii, lo sforzo di sostenere il peso in sospensione, quello degli altri corpi, e, di conseguenza, la fatica e l’autenticità della presenza in scena.
La costruzione di un universo
Per far apparire la montagna in tutta la sua immensità, in White Out non compaiono forme né rimandi didascalici alle sue altezze. Il vuoto, la verticalità, la vertigine, la salita, la sospensione e lo sforzo, sono racchiusi in un simbolo eterno, puro e potentissimo: una linea bianca che sale verso l’alto, una corda sospesa nel vuoto. Il luogo fisico è anche lo spazio mentale dei personaggi, allo stesso tempo realtà e ricordo, sogno e distorsione. Una scena coperta da un sottile strato di neve che si carica di significati diversi, dal candore di una nevicata d’inizio inverno, al gelo implacabile del ghiaccio a 8000 metri. Un non-luogo dove è possibile invertire l’ordine degli eventi, sovrapporre il presente al passato e anticipare il futuro, il tutto a favore di una narrazione imprevedibile.
La fotografia ricalca in maniera fedele l’immagine di un alpinista e i suoi strumenti: la lunghezza delle corde, il peso degli zaini, le imbragature. Schiacciati dal peso dell’attrezzatura, i performer sono ancorati a una recitazione naturale e coerente. Alla scenografia impalpabile e rarefatta, si contrappone l’utilizzo di oggettistica e costumi in cui la realtà incontra il mondo onirico. Incubi e visioni sono forme e immagini sulla scena riproposte in maniera sempre differente e stimolano l’immaginazione dello spettatore.
Il paesaggio sonoro
I suoni percepiti durante l’ascensione sono un tema ricorrente nella letteratura di montagna. Mark Twight, uno dei più controversi alpinisti americani, scrisse: “se un uomo non ha sentito il fischio del vento a 8000 metri d’inverno, non può riconoscere il vero significato della paura”.
Il silenzio in altezza è spesso una contraddizione e concentrarsi porta a scoprire un’infinità di rumori. Alcuni alpinisti degli anni ’80 raccontano di aver affrontato le pareti ghiacciate includendo nella loro attrezzatura walkman e batterie. Molti raccontano di aver avuto allucinazioni sonore, o di aver combattuto l’ossessione di melodie inarrestabili nei momenti più difficili delle loro imprese. L’ambientazione sonora rende tangibile per lo spettatore le forme e i luoghi che prendono vita sul palcoscenico. La voce narrante fuori scena, rappresenta la distanza che separa gli alpinisti dalla vetta, la sua invisibilità, lo spazio in cui emerge l’altrove, con il suo sistema di corrispondenze e la sua capacità di rendere infinito l’orizzonte. La manipolazione dei suoni è gestita dal vivo e crea un forte impatto sull’immaginazione del pubblico: ogni soffio di vento, ogni crepitio del ghiaccio, è realmente calibrato sui movimenti degli interpreti. Ne emerge una colonna sonora variabile, eterea ma anche dirompente, che accumula sonorità in maniera trasversale e diventa sostegno vertebrale di tutta la narrazione.
Piergiorgio Milano: coreografo, danzatore e acrobata
«Il mio linguaggio coreografico è il risultato di anni di ricerca sull’incontro di danza, teatro e arti circensi. I miei spettacoli si caratterizzano per un’estetica teatrale forte, sulla quale la danza può appoggiarsi e svilupparsi in piena libertà di poesia e virtuosismo. Mi posiziono al confine tra diverse arti, categorie o discipline; è nella tendenza ad oltrepassare quel confine che trovo la forza da immettere nei miei processi creativi. Mi dedico completamente, affinché i miei lavori restino sempre il frutto di una contaminazione radicale tra danza, circo e teatro.»
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Costo del biglietto: 5 euro
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