Andrea Cedrola ripercorre, attraverso una narrazione polifonica e impreziosita da incursioni dialettali e interconnessioni temporali, le indagini e i sospetti dell’omicidio perpetrato da Rina Fort – il primo grande delitto del secondo dopoguerra –, ai quali si intrecciano storie personali e percorsi emotivi dai contorni vividi e attuali.
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_di Roberta Scalise
«[…] Agli occhi delle persone, però, quella strage costituiva pure un viatico per uscire definitivamente dalla guerra, per dimostrare che era davvero finita. Nel fatto che una donna e tre bambini fossero stati ammazzati per questioni di gelosia vi si coglieva un po’ di normalità. Non appena ebbe formulato questa ipotesi, a Conforti sembrò paradossale, ma poi del tutto ammissibile. Non era una carneficina di partigiani o di fascisti, non erano bombe, rastrellamenti o qualunque altra cosa avesse spazzato via l’occhio di Giulio o la gamba di suo padre. Quella era la vita di tutti i giorni, e nella vita di tutti i giorni una donna s’ingelosisce e ammazza».
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È un reticolato di emozioni sommerse, dolore e nefandezze subìte e perpetrate quello che si dispiega nel corso delle pagine de “La speranza è un vizio privato”, il primo volume, redatto da Andrea Cedrola ed edito da Fandango Libri, dedicato alle indagini private di Gerardo Conforti e ai più oscuri e sanguinosi casi di cronaca nera che hanno interessato i decenni intercorsi dal secondo dopoguerra a oggi.
A introdurre l’intreccio, infatti, vi è la narrazione densa e rielaborata del primo grande delitto successivo alla barbarie della Seconda Guerra Mondiale: l’omicidio, verificatosi a Milano, commesso da Rina Fort il 29 novembre 1946 e qui reso attraverso il volto di Marianna Zanon, la “belva di San Paraggio” rea di aver assassinato, in un’acme di rabbia e gelosia, la moglie e i tre figli del suo amante, Gianni Pagani.
Una strage scandagliata e delineata nei dettagli più minuziosi, restituiti al lettore mediante le descrizioni acute e raccapriccianti tratte dagli atti processuali e l’accurata introspezione psicologica dei suoi protagonisti, così irretiti in una narrazione vivida, cruenta e scrupolosa di inaspettate rivoluzioni sentimentali e delle conseguenze deleterie da esse derivanti.
E nella quale, inoltre, confluiscono, in maniera trasversale e invasiva, le traiettorie fisiche ed emotive di Gerardo Conforti: contadino del Cilento giovane, caparbio e audace, giunto a Milano per condurre un’investigazione personale volta al ritrovamento dell’assassino del padre Attilio e, dunque, coinvolto, suo malgrado, non solo nel disvelamento delle vicende che hanno condotto alla dipartita del genitore – tra malaffare, droga e verità celate –, ma anche negli anfratti di un omicidio e di storie private caratterizzate da retrovie inquietanti e votate all’illegalità.
Cui offre, quindi, la propria voce il derivato stesso di tali parabole, ossia Katja, nipote acquisita – e tratta in salvo – di Conforti e oratrice onnisciente del susseguirsi coinvolgente e ritmato degli episodi, di cui è detentrice in un tempo presente che amabilmente si coniuga con le progressioni del passato e genera parentesi di pathos, suspense e interconnessioni impreviste ma funzionali all’intreccio.
L’autore, infatti, muove con sagacia i fili di esistenze ed epoche dissimili, dando luogo, così, a una narrazione stratificata, polifonica e fluviale, che reca con sé i detriti di vite spezzate, confuse e deviate e tratteggia un’atmosfera livida e particolarmente torbida, resa da uno stile originale e avvincente che vede incursioni dialettali, repentini cambi di scena, svolte impreviste, dialoghi indiretti plausibili e prossimi al lettore e pennellate visive intense.
Capaci, queste ultime, di delineare, nello scorrere incalzante delle parole, i cambiamenti, le sfumature, i tratti caratteriali e i pensieri reconditi dei personaggi centrali e collaterali, utilizzando la penna alla stregua di riprese in “primo piano” attente e particolareggiate.
A rimembrare che, in un periodo storico velato di color seppia, spaesato e ancora dominato da superstizioni e tradizionalismi, la speranza, se concessa, può, quindi, costituire solo un “vizio privato” e tra sé sussurrato.