“L’origine del Flamenco è scritta nel suo nome, perché le cose esistono quando si nominano.” Un’emozionante lezione di cultura, storia e Vita, quella del professor Antonio Manuel Rodriguez che ha inaugurato il ciclo Flamenco y Cultura dell’associazione Fuente Flamenca di Vicenza. Torniamo bambini allora, bocche chiuse, orecchie aperte e cuore in ascolto… incomincia la storia.
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_di Valentina Matilde De Carlo
In principio fu la ninna nanna, quella nenia che ci cantavano da bambini per farci addormentare e che ancora ricordiamo, non come momento nitido e preciso, contornato da tutti i dettagli, ma come frammento sbiadito, composto di memoria emotiva, il vero ricordare, dalla sua etimologia latina tornare a sentire con il cuore. Forse non ci sovvengono le parole, o abbiamo dubbi sulla melodia, ma quel momento intimo, dove le anime si specchiano, ha gettato un seme nel nostro cuore e ancora ne raccogliamo i fiori e ne assaporiamo i frutti di quella carezza che fa male, come la definisce il professor Antonio Manuel Rodrigez, dolce e ruvida allo stesso tempo, come le mani della nonna, stanche e usurate dal lavoro nei campi, ma sempre pronte e presenti per quel gesto.
Si apre così, con l’immagine personale e intima di quella carezza, la prima conferenza del ciclo Flamenco y Cultura organizzato dall’associazione Fuente Flamenca di Vicenza e, in un piovoso pomeriggio di fine maggio, le parole del professore andaluso, insegnante di diritto civile presso l’Università di Cordova, ci arrivano come tante scintille di luce, da custodire, da cullare, da conservare.
Questo é il Flamenco, una carezza che graffia, un’allegria intrisa di dolore, un grido muto, una festa venata di malinconia, una celebrazione della vita che é come le gonne delle gitane, piena di pieghe, di balze, di strati, tutti diversi, tutti importanti.
Antonio Manuel, che é venuto da lontano per un incontro del destino con Elisabetta Mascitelli, direttrice della scuola Fuente Flamenca, per la sua lezione ha scelto di farci immergere completamente nella sua lingua, coinvolgendo solo di tanto in tanto l’interprete e ci racconta così del suo libro, che é molto più di un libro, è un lavoro di scavo e di cesello, di ricerca meticolosa e profonda, sul passato, la storia, le origini e i misteri del Flamenco.
Il Flamenco con la F maiuscola, perché oltre ad essere un ballo, un canto, un ritmo, é una storia che narra la sopravvivenza di un popolo, una cultura che diventa baluardo della ribellione, una memoria popolare non scritta che tiene in vita. Flamenco Arqueología de lo jondo, archeologia del profondo, di quello che abita dietro le porte, sotto le soglie, di quello che é nascosto dallo strato di polvere del tempo, di quello che sfugge alla scrittura, perché memoria orale tramandata di madre in figlia. Cercare ciò che risiede dietro le cose vuol dire innanzitutto partire dal significato del nome che portano, perché tutto quello che esiste sotto la volta del cielo e oltre, esiste se gli si affida un nome.
Cosa ci dice allora il Flamenco già nel suo nome? Incerta l’etimologia, l’ipotesi del professor Manuel é che abbia le sue radici nell’arabo, una delle fonti a cui il Flamenco si abbevera e, nello specifico, in falâḥ-mankûb, dove falâḥ significa contadino e mankûb indica nel diritto arabo l’espropriazione delle libertà quotidiane, di vestire come si vuole, di pensare quello che si ritiene giusto, di parlare la propria lingua madre, lasciando, a chi rimane nella propria terra conquistata da un altro popolo, nient’altro che la memoria e la dignità a fargli da vestito. La storia del Flamenco si lega a doppio nodo alla Storia del popolo morisco, gitano, africano e andaluso e delle loro tradizioni, mescolatesi nella convivenza e nelle migrazioni, per finire riunite in terra di Spagna sotto un unico cielo e, dopo la Reconquista, sotto un’unica legge, che avrebbe voluto, come é tendenza fisiologica dei gruppi umani, livellare l’alterità, eliminare le differenze che incutono timore, proibire riti e culture che non si comprendono. É più facile vivere con ciò che si conosce e tentare di seppellire nel fondo del mare i tesori culturali di un altro popolo.
Il viaggio che facciamo con il racconto di Antonio Manuel, accompagnati dal canto struggente e dolcissimo di Alba Guerrero, sulle note della chitarra di Alberto Rodriguez, é un viaggio tra i cunicoli più bui dell’animo umano e nei tesori luminosi che esso sa creare proprio da quelle zone d’ombra.
Come il Flamenco, quel racconto cantato e ballato della vita, nei suoi differenti palos, ovvero differenti forme musicali, caratterizzate da ritmi, melodie, testi e sentimenti diversi, ancora una volta legati tramite il loro significato etimologico agli aspetti della vita che narrano.. Il Taranto dall’arabo ṭarab che significa stato di estasi, stessa radice della nostrana tarantella, l’Alegría, dal caló-castigliano taverna, il ballo della festa e della spensieratezza, la Soleá dall’arabo ṣalât, orazione, il ballo intimo e solenne…
Un racconto ad alta densità emotiva quello del professore, da semplici frammenti di vita personale, a concetti di storia ed etimologia complessi, spiegati in maniera potente, ma comprensibile, come un qualcosa che arriva là dove vuole arrivare, direttamente, senza scorciatoie. Come il Flamenco, che ti arriva dritto al cuore, attraverso i gesti e le parole che parlano una lingua universale e da tutti comprensibile: quella delle emozioni.
Due parole segnano l’inizio e la fine di un cante o di un baile flamenco: Ay e Ole. Ay, espressione collettiva della sofferenza, metafora del grido primordiale, l’atto fondativo delle prime comunità umane, che non si sono unite grazie al focolare, ma grazie al grido e ai gridi, di guerra, di terrore, di gioia e di dolore. Ole, ancora una volta dall’arabo, allah, la parola araba per Dio, e, per estensione che va al di là di qualunque credenza religiosa, é l’invocazione di quel qualcosa che l’uomo percepisce essere al di sopra di tutte le cose, di quell’afflato divino e naturale che tutto muove.
Invocazione e viscerale ringraziamento. E quindi Ole.
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¿ Donde hay un sabio que
explique lo que quiere decir ole ?
El ole es una parabra, ¡ Ole !
que no tiene explicacíon,
el ole es como una rosa, ¡ Ole !
que sale del corazón.
El ole, primito mío,
yo no lo quiero entender;
pero quiero que me digan
ole con ole y olé.
(Pastora Pavón, por Bulerías)