L’opera teatrale, redatta dal drammaturgo Samuel Beckett nel 1952, ha rappresentato l’oggettivazione dell’assurdo e il senso di un’attesa che mira al metafisico mediante l’interpretazione magistrale di Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio Tintis e Francesco Tintis, mercoledì 6 al Teatro della Concordia di Venaria.
_ di Roberta Scalise
“Quanto ci sarà di vero?”. Un quesito denso che, sfumato talvolta di ironia, attraversa tacitamente i due atti costituenti una delle opere teatrali più celebri e apprezzate del drammaturgo di Dublino Samuel Beckett, il cui adattamento italiano, a cura della Compagnia Knuk Teatro e per la regia di Alessandro Averone, è andato in scena mercoledì 6 al Teatro della Concordia di Venaria Reale.
Ad animare una scena scarna, costituita da un albero spoglio e da una vacuità assordante, Vladimiro ed Estragone: due uomini legati da un’amicizia annosa e sincera, colorata di attimi di amore intenso e altri di onesta mal sopportazione, in attesa di un’entità di cui non ricordano i connotati, ma – secondo i due – capace di mutare la loro condizione di indigenza. Godot, infatti, si staglia, forse, come il protagonista principale, incarnazione di un senso cangiante che cambia in base al sistema di valori di chi – teatranti o spettatori – assiste alla scena del suo agognato arrivo. Che, però, non si verificherà mai, arrecando con sé l’alone di un’incertezza circa il suo statuto che non troverà soddisfazione, ma assumerà tanti volti quanti sono gli individui che compongono l’umanità, ognuno dedito a ricercare un significato in questa esistenza caotica.
«Vladimiro: “Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano? Sto forse dormendo in questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di questa giornata? Che col mio amico Estragone, in questo luogo, fino al cader della notte, ho aspettato Godot? Che Pozzo è passato col suo facchino e che ci ha parlato? Certamente. Ma in tutto questo, quanto ci sarà di vero?».
Al cospetto della molteplicità di tutte le chiavi di lettura disponibili, tuttavia, quella capitalistica sembra essere la più prepotente: a ritrarre la vanità e l’arroganza del “padrone”, infatti, vi è un uomo dalla fragile malvagità, Pozzo, che, goffo e spesso schernito per la sua folle e cieca ricerca di supremazia, manovra i movimenti e i pensieri del suo “schiavo”, Lucky, inerme in apparenza ma conscio, nel profondo, della sua condizione di sudditanza e, al contempo, estremo potere.
Una condizione che ha ben compreso anche Vladimiro, il vero filosofo del dramma che, pur essendo consapevole – in un flusso di coscienza che rivolge i suoi echi alle riflessioni di Cartesio, Calderon De La Barca, Amleto, Bergson, Joyce e Woolf – dell’inspiegabile assurdità del reale e dell’immobilità del tempo in cui quest’ultimo è immerso, in un perpetuo andirivieni di sonno e veglia esistenziale adagiato sullo sfondo di una quotidianità di gesti semplici che si ripetono e si confondono, non sfugge alle catene, ma da queste rimane irretito in attesa di un risvolto positivo – sia Dio, la ricchezza, il senso della vita, la morte, la saggezza o altro – che ne legittimi l’allontanamento.
Proprio come esplicita, infine, lui stesso, nella chiosa di un’attesa eterna, al suo fido auditore, Estragone. Infatti:
«Vladimiro: “[…] Che stiamo a fare qui, ecco ciò che dobbiamo chiederci. Abbiamo la fortuna di saperlo. Sì, in questa confusione una cosa sola è chiara. Noi aspettiamo che venga Godot”.
Estragone: “È vero”.
Vladimiro: “O che cada la notte. Siamo venuti all’appuntamento, punto e basta. Non siamo dei santi, ma siamo venuti all’appuntamento. Quanti uomini potrebbero dire lo stesso?”».