L’abisso di Davide Enia: la verità urgente e straziante di una tragedia contemporanea

Dal libro Appunti per un naufragio, nato da un reportage a Lampedusa, lo scrittore, attore e regista Davide Enia trae un racconto sincero e straziante, mosso da una profonda urgenza e da un intimo bisogno di raccontare una tragedia attuale, quella degli sbarchi dei migranti. Traumi, angosce, dolore e speranze dei sommersi e dei salvati nel Mediterraneo. In scena al Teatro Gobetti fino al 10 marzo.

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_di Elisabetta Galasso

Una ragazza fenicia scappa dalla città di Tiro, attraversando il deserto fino al suo termine, fino a quando i piedi non riescono più andare avanti perché c’è il mare Mediterraneo di fronte.
Allora incontra un toro bianco, che si piega e la accoglie sul dorso, facendosi barca e solcando il mare, fino a farla approdare a Creta. La ragazza si chiamava Europa. Questa è la nostra origine. Siamo figli di una traversata in barca.

Così si conclude il racconto lacerante e commovente di un Enia – Enea che parte per Lampedusa. Un nome che da tempo ha smesso di evocare una meravigliosa isola ed è diventato sinonimo di morte, di pena per l’umanità, di profondo abisso. L’abisso è infatti il titolo dello spettacolo che rievoca l’abisso della verità nuda e cruda.

La verità di uno dei sommozzatori che Davide ha incontrato, quelli che tutti i giorni devono fare i conti con una barca, un mare in tempesta e la decisione istintiva di chi salvare: i tre uomini che stanno affogando a 2 metri di distanza o la mamma giovanissima con in braccio il suo bambino poco più avanti?

La verità di Vincenzo, custode del cimitero di Lampedusa. Lui che ha lavato e profumato 12 cadaveri. E li ha seppelliti, 11 ragazzi l’uno accanto all’altro come una squadra di calcio. Più in là in disparte, la tomba per l’ultimo cadavere, quello di una ragazzina, messa all’ombra di un oleandro, per ridarle quella dignità che nemmeno in punto di morte ha avuto. Per loro, Vincenzo costruisce 12 croci, che non sono un simbolo musulmano perché non importa, alla fine dentro abbiamo tutti le ossa bianche.

La verità del padre di Davide, un cardiologo in pensione col pallino della fotografia, un padre “muto”, che ha dialogato poco e niente col figlio, con cui inizierà un nuovo rapporto, intenso, autentico. Probabilmente, grazie anche a quei 525 sbarcati che padre e figlio vedono per la prima volta: tra loro neonati, donne incinte, violentate, minori tra i 12 e 15 anni non accompagnati. Un pezzo di umanità mai scrutata prima di allora.

La verità dello zio di Davide, Beppe, nefrologo, morto di cancro, uno struggente quadro di piètas: sul letto di morte non ci sarà più posto nemmeno per le lacrime. Attraverso l’orrenda mutilazione del corpo e dell’anima di centinaia, migliaia di naufraghi, zio e nipote riusciranno a metabolizzare persino il lutto, la perdita ed il distacco dalla vita terrena. Un passaggio lieve rispetto alle atrocità sofferte da quei poveri ragazzi in balìa delle onde del mare.

Enia lavora sui muscoli, sulla fisicità, il suo corpo si accompagna alle corde della chitarra di Giulio Barocchieri  creando un’intensità tale e rendendo il contenuto ancora più forte, più urgente. I gesti e i silenzi che percorrono tutta l’atmosfera del teatro, rappresentano il momento che stiamo vivendo, il tempo presente della crisi.

All’uscita del teatro però è la luce, una nuova consapevolezza fa capolino e ognuno di noi deve fare i conti con il proprio abisso e con questa immane tragedia contemporanea che ci guarda fisso e ci riguarda. Tutti. Nessuno escluso. Rallenti e tornando a casa, nell’abisso della notte, ti soffermi a guardare il viso di quell’uomo solitario vicino a te. Chissà se, anche lui, viene da Lampedusa.

Le immagini sono di Futura Tittaferrante