L’attrice torinese ci ha raccontato le sue impressioni sul gLocal Film Festival – di cui sarà madrina per la 18° edizione, che verrà inaugurata proprio questa sera – e alcune tappe fondamentali della sua carriera.
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_di Roberta Scalise
Era il 1997 e una giovane Stefania Rocca esordiva sul grande schermo con un film che le avrebbe cambiato la vita, “Nirvana”: il ruolo di Naima, ragazza dai capelli blu immersa in un universo fantascientifico e dall’impronta cyberpunk diretto da Gabriele Salvatores, infatti, le valse il Ciak d’Oro, consacrando definitivamente il suo successo. Una pellicola “sui generis” che sarà proiettata stasera, al Cinema Massimo di via Verdi, in occasione dell’inaugurazione della 18° edizione del gLocal Film Festival, di cui la stessa Rocca sarà madrina.
Quale rapporto ha con la sua città natia, Torino?
Quando torno è sempre un gran piacere: qui mi reco per incontrare mia madre e far conoscere ai miei figli il luogo da cui provengo. Sono, quindi, molto legata alla città, e apprezzo che questo riconoscimento derivi proprio da qui, perché fare sistema è fondamentale, non solo a livello “local”, ma anche “global”.
Qual è stata la Sua reazione quando ha scoperto che sarebbe stata la madrina del festival?
Sono rimasta molto contenta quando ho saputo di questo incarico, perché gradisco sempre partecipare a iniziative torinesi (e, anzi, se ne dovrebbero fare molte di più) e stimo l’idea del festival: creare situazioni locali che interagiscano con altre medesime, al fine di creare comunità più grandi. Mi diverte, inoltre, che rivestirò un ruolo di “accudimento”, in quanto 18° edizione, e che sarà riproposto proprio “Nirvana”: un film che, come Torino, fa parte del mio passato, ma è sempre vivo dentro di me.
A proposito di “Nirvana”, quale ricordo ha di quell’esperienza?
Le sensazioni correlate sono molte. Peculiare, soprattutto, il posto in cui era ambientato il set, dove giravamo sempre di notte: un’autentica realtà virtuale, in cui era simpatico ed estraniante entrarvi. Il cinema, in questo senso, ha un ruolo particolare, in quanto capace di raccontare mondi distanti e fantasiosi. L’emozione, poi, è stata grande, perché il film era importante, e gli attori altrettanto: ritrovarmi di fronte ai personaggi della mia tesi per l’ingresso al Centro Sperimentale, Abatantuono e Salvatores, è stato molto bello.
Per quanto concerne, ancora, il Premio Riserva “Carlo Alberto”, quali contributi crede di aver apportato nel condurre in alto il nome di Torino e del Piemonte?
Di Torino penso di aver diffuso (o, almeno, è quello che mi viene riferito), in ambito cinematografico, le caratteristiche che ho vissuto di questa città, quali eleganza “aristocratica”, passato operaio, mistero, determinazione, volontà di rinnovarsi: aspetti di cui vado fiera, perché rispecchiano le mie origini. Mi fa, dunque, piacere ricevere questo premio, perché essi spesso sono stati considerati come piccoli “svantaggi”: il confine è sempre stato labile.
Riguardo ai ruoli, invece, ce n’è qualcuno che non ha ancora interpretato e che Le piacerebbe rivestire? Al contrario, qual è la massima soddisfazione lavorativa ottenuta finora?
Di personaggi che vorrei interpretare ce ne sono miliardi, compresi quelli che non sono ancora esistiti o scritti: il bello di questo mestiere, infatti, è la possibilità di raccontare non solo quello che si “vede” ed è reale, ma anche di dare voce alla fantasia.
Di soddisfazioni, poi, me ne sono prese parecchie: tra queste, sicuramente si può annoverare il film diretto da Aditya Bhattacharya, “Senso Unico”, in cui ho interpretato il personaggio di un fumetto che si ribella al suo creatore-disegnatore, ma anche “Nirvana”, naturalmente, “La bestia nel cuore”, di Cristina Comencini – una pellicola che mi porto dentro soprattutto per la sua fase di preparazione, durata tre mesi e ambientata in un centro per i ciechi –, “Edda Ciano e il comunista”, di Graziano Diana, e “Mafalda di Savoia” di Maurizio Zaccaro. Aspetto i ruoli che arriveranno!
Nel corso degli anni, come è mutato il Suo approccio alla fase creativa e alla preparazione dei ruoli stessi?
L’atteggiamento varia in base a ciò che l’attore ha vissuto. I metodi che ho imparato li ho ormai acquisiti, ma ora ne ho adottato uno mio, legato al mio “momento”, alla mia maturità, alla mia consapevolezza, agli stimoli che mi derivano dal mondo esterno e alla percezione che questo mi dà. Esso, dunque, deriva dalla “valigia” – come affermerebbe Stanislavskij – che ho riempito nel corso della mia esistenza.
Quali sono, infine, i suoi progetti futuri?
Il 28 marzo andrà in onda, su Rai 1, “Mentre ero via”, di Michele Soavi (lo stesso con cui, a Ivrea, ho girato “Adriano Olivetti – La forza di un sogno”), mentre a teatro sto interpretando il ruolo di una giornalista in “Squalificati”, di Luciano Melchionna: una partita a scacchi tra potere politico e mass media. Il mio personaggio è una donna forte e inflessibile, cui, tuttavia, ho cercato di dare una fragilità non emotiva (perché, soprattutto in quanto donna, deve assumere un atteggiamento implacabile), bensì fisica, proprio per creare un contrasto tra forza e determinazione professionali e fragilità femminile.
Sono, invece, terminate le riprese della fiction Mediaset “Made in Italy”, in cui ricopro i panni della stilista Krizia: un ruolo complicato, perché si tratta di individui realmente vissuti nei confronti dei quali una verità oggettiva non esiste e che ho cercato, quindi, di interpretare a modo mio.