Natura e artificio che convivono nel limbo della tensione fisica: l’artista biellese Scerbo ci racconta la sua ricerca – partita dalla letteratura e dal disegno – in bilico tra scultura astratta, installazioni e creazione di video.
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_di Miriam Corona
Nome d’arte di Giuseppe Solinas, Scerbo svolge una ricerca strettamente legata alla condizione d’esistenza dei materiali, e non solo. Formatosi da studi filosofici, egli analizza in modo quasi analitico la realtà circostante, composta da oggetti del quotidiano in dialogo tra di loro e con lo spettatore, al quale chiedono chiaramente di essere messi in discussione ed essere rivalutati. Le opere risultano essenziali e allo stesso tempo complesse, perennemente poste in un equilibrio tra questo e altro, tra un’esistenza incompiuta e singoli momenti di riflessione.
La caratteristica principale che emerge è la precarietà delle opere, a denotare il senso di provvisorietà, che non è mancanza né assenza: sembra invece un rimando alla convenzione umana (quasi narcisistica) di poter creare qualcosa di finito, di dargli un inizio e una fine, di definire quindi a nostra immagine anche ciò che consideriamo una nostra creazione. Precludergli un’eternità alla quale noi non siamo destinati. È così che si genera un equilibrio che definisce la zona grigia in cui la materia è sia leggera che pesante, fragile eppure resistente, effimera eppure immortale, estrapolandola dal suo contesto originario e ponendola in continua trasformazione.
Un realismo espressivo che vuole guardare al di là di semplici aspetti intellettuali, ma che vuole mettere in discussione i concetti stessi di memoria, realtà e forza.
Scerbo è nato a Biella il 14 febbraio 1984, si è formato da autodidatta nel 2008, spinto dalla necessità di dare una forma espressiva al pensiero filosofico maturato durante gli studi universitari. Partendo dal disegno e dalla pittura, ha iniziato a lavorare sulla scultura astratta e negli ultimi anni si è dedicato alle installazioni e alla creazione di video, trovando in questi due mezzi un buon equilibrio per la sua ricerca. Nel 2013 inizia la sua collaborazione con Danilo Jon Scotta, giornalista e scrittore italo-scozzese che lavora con la rivista francese D’ARS, che segna un punto decisivo nella sua produzione artistica e gli permette di capire appieno le strutture del suo lavoro. Sempre nel 2013 ha esposto presso gli spazi di Paratissima a Torino e successivamente in una mostra di gruppo a Roma presso la galleria Rosso Cinabro. Nel 2017 ha esposto nuovamente alla tredicesima edizione di Paratissima. Continua a sperimentare integrando i mezzi digitali nei suoi lavori, utili all’espansione di una nuova forma di movimento culturale che diffonde l’espressività sul piano della coscienza.
Una finestra sul tuo mondo: come ti sei avvicinato all’arte? C’è stato un momento di vocazione o è stato invece un processo di avvicinamento, una consapevolezza acquisita col tempo?
Ancora oggi sto cercando di capire se mi sono mai avvicinato davvero all’arte o se consapevolmente io ne abbia preso le distanze per cercare qualcosa che le assomigli soltanto. Vivo da dodici anni questa ricerca senza definirne l’appartenenza ad una categoria di forma espressiva ma cercando solo di ascoltare la verità dei bisogni che profondamente affiorano alla mia coscienza nel momento stesso in cui mi metto al lavoro, quando riconosco che l’azione rivela o schiude uno spazio significante entro il quale le mie problematiche intellettuali si fondono con un fatto reale e concreto o meglio verificabile.
Non so se questo tipo di modus operandi sia una forma d’arte o semplicemente una pratica indefinita che mi permette di fare luce sui dubbi relativi alla tensione fra pensiero e materia, ma sta di fatto che la riflessione pura che vivevo nel 2007 durante i miei studi, non riusciva a trovare una dimensione entro cui realizzarsi in quanto sintesi perché il confine del linguaggio letterario poneva il limite dell’esclusività semantica appartenente alla sfera mentale collettivamente condivisa, senza permettermi di donare un corpo esperibile alla mia condizione riflessiva.
Per questo tipo di esigenza, dopo aver sperimentato il brivido della poesia per un anno, ho cominciato a disegnare sui miei libri e mi sono scoperto più vero in quei disegni che nel mio cervello bollito. Così sono rinato teneramente su quei fogli che piano piano si sono presi cura di me e mi hanno lasciato libero di trascenderli oggi.
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L’infanzia appartiene a noi e a noi solamente; se dovessi avere una scatola che ne contiene i ricordi e gli oggetti più preziosi, cosa conterrebbe?
Conterrebbe il vuoto, perché per me l’unico modo che ha la coscienza di ritornare ad una condizione simile a quella di un infante è la mente sgombra da ciò che limita l’immaginazione. Normalmente l’euforia bambina è forte nel desiderio, in quel momento in cui le cose non le hai ma le brami ardentemente, quando sei pieno di emozioni che animano il tuo mondo interiore nella mancanza di un soddisfacimento del sé.
È lì che si verifica l’infanzia più vera, perché quando la scatola si riempie inizia un principio di sviluppo condizionato in cui ti formi e cresci nella dipendenza dal tuo desiderio. Per questo immagino una scatola piena di assenza in cui lasciar schiudere l’immaginazione all’ennesima potenza, piena di tutta l’isteria emotiva che l’adulto perde con il passare del tempo.
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Nella tua formazione hai affrontato gli studi filosofici. Ti senti collegato a qualche pensiero in particolare che si riflette nella tua opera o la ispira?
Non sono strettamente collegato a delle correnti di pensiero, e questo perché oggi la mia ricerca sta cercando proprio di eliminare ogni appartenenza ad un paradigma referenziale nelle dinamiche conoscitive, al fine di poter cogliere la realtà svincolata da categorie cognitive generali o universali, mostrandone la portata relativista che ne determina la natura dinamica di senso in rapporto a tutto ciò che la circonda nel momento in cui ne facciamo esperienza, sia fisica che mentale. È come dire che ogni evento o fenomeno reale non è più lo stesso ogni secondo dopo aver vissuto nel tempo e quindi anche lo stesso pensiero vissuto in tempi diversi, ontologicamente non è più quello di prima seppur fondato sugli stessi assiomi. Ciò nonostante, ci sono tre figure che hanno profondamente influenzato il mio percorso: Jiddu Krishnamurti, Immanuel Kant e Renè Descartes.
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Gli elementi naturali sono sembrano essere una costante nei tuoi lavori. Ne prediligi alcuni rispetto ad altri? Che rapporto hai con la natura in generale?
Con la natura ho un rapporto contrastante e delicato, soprattutto nella dimensione riflessiva che ho su di essa in termini analitici. È il concetto di naturale che mi affligge quotidianamente!
Se vivo la manifestazione della natura dal solo punto di vista dei sensi, la dominanza della sensibilità inconscia ed intuitiva mi trasporta in una danza simbiotica con l’immensità della sua potenza, dove mi sento fuso e perso con l’indeterminatezza della sua esistenza, ma nell’istante in cui comincio a pensare tutto cambia drasticamente. Il ballo primordiale si blocca come un carillon a fine carica e i pensieri filosofici riesumano il disincanto del dubbio analitico che si interroga lucidamente su ciò che sta dietro alla forza della sua manifestazione e alle sue apparenti contraddizioni nel rapporto con il nostro ideale di perfezione, che inevitabilmente mi porta in un loop di domande o pippe mentali in cui cercare l’appartenenza della natura anche nello sviluppo del pensiero che l’uomo ha su di essa, e quindi a sdoganarne i confini di una visione “biocentrica”. Questi pensieri emergono con i miei occhi stupiti di fronte a una distesa di terra umida o arsa, a volte persi nella densità di un masso raccolto su un semplice prato verde, a volte alienati nella luce di un neon intermittente, e poi risvegliati nell’anestesia che passa sotto i ferri del dentista.
Si ritrova spesso un dialogo tra oggetti industriali come neon, blocchi di cemento, taniche, specchi, grate e natura, due mondi agli antipodi che invece di litigare creano un sodalizio. In che modo si approcciano queste due realtà tra di loro, e in che misura? Esiste una prevaricazione o è una coesistenza equilibrata?
Questo mio modo di relazionare le due dimensioni è controverso anche per me perché la sinergia che vive in questa comunione è il frutto di riflessioni sul valore di verità che diamo all’idea di “naturale”. Nel vivo del pensiero che mi tormenta c’è una simmetria concettuale fra ciò che è naturale e ciò che esiste nello spazio e nel tempo, dove la collisione fra le due semantiche fiorisce l’ipotesi della loro coincidenza e ne scardina la linea che logicamente le separa, trovando un accordo in che mi fa pensare alla possibilità di non credere alla distinzione categorica tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Dal momento che qualcosa esiste, è automaticamente riconoscibile come un fatto reale e quindi naturale, o meglio come una manifestazione che appartiene alla natura dell’esistenza.
La vera distinzione che mi affascina è quella fisica fra ciò che è organico e ciò che non lo è, dove si sviluppa una condizione che realmente assomiglia al rapporto tra vita e morte. Quest’incontro fra materiali inerti e materia brulicante trascende la loro antitesi, portando tutto su un piano di contatto reale in cui sciogliere la distinzione dimensionale al fine di scoprire la materia di fondo che li sostiene entrambi nel ‘qui ed ora’, nello spazio di esistenza presente oltre le nostre categorie conoscitive.
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Osservando le tue sculture, si rimane come in attesa di una azione. Si è immersi nella potenzialità di quello che può essere, in equilibrio tra presente e futuro. Quando inizi un lavoro, sai già dal principio quali saranno le tue esatte azioni o è un processo in divenire?
Anche in questo caso la premessa che devo fare per rispondere alla domanda risulta fondamentale.
I processi di realizzazione dei lavori sono scanditi da una riflessione che riguarda principalmente il rapporto tra ciò che sta in potenza e ciò che è manifesto, dove mi concentro sulla possibilità che l’energia potenziale di un evento sia presente sotto forma di consapevolezza della materia. Il punto cruciale sta nell’idea che le molecole siano in grado di creare delle connessioni complesse entro cui condividere un linguaggio che permetta alla materia di svilupparsi secondo un divenire finalizzato e sostenuto da una sintassi ‘metafisica’ di fondo in grado di coordinare l’organizzazione nel divenire di qualcosa all’interno dello spazio e del tempo.
Il seme di una pianta contiene già in sé l’idea della pianta ed anche le direttive di un codice che permetta il suo sviluppo. E la cosa interessante non è che questa verità esista, ma lo spazio in cui il seme può ricevere e sviluppare l’idea già prima di realizzarsi e soprattutto cos’è che permette questo tipo di codifica biofisica.
Per questo tipo di pensiero, spesso lascio il mio lavoro in uno stato potenziale, al fine di porlo in una condizione di possibilità non determinata che porti la mente e la coscienza in quella condizione di “brodo primordiale” in cui decidere le sorti di un’eventuale realizzazione. Come fosse un lavoro sull’uomo in quanto pensiero, che si ferma prima di lasciar fluire il proprio sentire in modo da riuscire a comprendere che può plasmare l’energia di un’azione prima di canalizzarla, perché la materia non ha una determinazione arbitraria ma libera e mutevole.
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Complessivamente, la tua opera non può che richiamare alla mente l’esperienza dell’Arte Povera, della quale si trovano alcuni principi cardine nel tuo lavoro, come l’importanza dell’azione, l’occupazione dello spazio fisico come condizione dell’esistenza dell’opera e l’uso di materiali archetipici, ridotti alla loro forma originaria. In senso materico, la tua è una ricerca analoga?
Anche se potrebbe sembrare, no.
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Quanto spazio dai all’uso della tecnologia e del digitale nel tuo lavoro?
Moltissimo, lo sento davvero come uno strumento naturale. Penso che l’energia significante di un’azione sia trasmissibile ed esperibile su più livelli dimensionali in cui semplicemente il senso cambia la propria frequenza o vibrazione. A volte vivo più intensamente il momento dello scatto fotografico al mio lavoro che il periodo della sua realizzazione, e questo perché il valore di quello che sto facendo viene memorizzato nella sua piena pulsione vitale, appena dopo la sua nascita, e sicuramente non sarà mai più così nel momento in cui l’opera si distanzia da quel punto di densità massima che solo la fotografia potrà mostrare conservandone l’energia nella memorizzazione della luce che si irradiava in quel preciso istante.
Nella tua immaginazione, le tue opere hanno una destinazione d’uso o un ambiente in cui vivere?
Lo spazio in cui il mio lavoro si manifesta (o vorrei che si manifestasse) resta un punto di dubbio profondo circa la determinazione del suo valore reale. Da un lato mi affascina l’idea di trovare un ambiente che sia in grado di portare un pezzo nella sua migliore condizione espressiva o addirittura che ne possa determinare il senso nella relazione con esso, ma dall’altro sento che questa dimensione potrebbe togliere al mio lavoro il suo contenuto di ricerca legato alla possibilità di agire sulla predisposizione dell’animo umano a trascendere la contestualizzazione nell’atto della comprensione.
Forse mi piacerebbe riuscire a proporre alcuni lavori all’interno di spazi scomodi o completamente in antitesi con l’essenza dei pezzi, in modo da amplificare uno stato di tensione visiva che possa quasi snaturare l’identità espositiva, al fine di spingere il pensiero in uno stato di ricerca e dubbio su ciò che realmente si cela dietro all’esperienza che sta vivendo. Potrebbe essere uno studio notarile o un pollaio, o forse potrebbe essere il pollaio stesso l’opera all’interno dello studio notarile.
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Ci sono state delle occasioni di frustrazione, fallimenti, brancolamenti nel buio? Se sì, come le hai affrontate?
Il fallimento è proprio uno degli oggetti privilegiati della mia ricerca e lo vivo costantemente da quando ne sono consapevole, bramandone la condizione all’interno della mia vita come fosse carburante che tiene accesi i motori dell’incompiuto, del non finito. Ma questo concetto di fallimento non ha nulla a che vedere con la frustrazione, che appartiene ad una dinamica di vita fondata sull’aspettativa da soddisfare per trarne dei picchi di felicità che svaniscono non appena la mente rigenera la stessa condizione di dipendenza da questa ritmica, perché è un fallire che si compie nel momento stesso in cui si nega alla propria condizione di appartenenza all’idea di sofferenza e si realizza solo in quanto condizione di finitezza esistenziale.
Quando un mio lavoro di bilanciamento fra vetro e cemento crolla nella notte, io dalla mia camera da letto sento il botto che arriva dallo studio e mi sveglio con la certezza che ciò che ho realizzato non era un sogno ma realtà. Una realtà che fallisce nel buio ma che ti sveglia.
Quali sono i tuoi imminenti progetti futuri?
Solo adesso sto cercando di capire dove voglio realmente dirigere la mia ricerca, se lasciarla in uno stato di continua sperimentazione personale o se portarla in una dimensione più definita da un punto di vista espositivo. Attualmente sto lavorando con un’artista italiana che si chiama Clarissa Baldassarri, con la quale stiamo realizzando dei lavori di fusione tra videoinstallazione, ricerche plastiche e concettuali che verranno presentate (salvo deragliamenti) questo aprile in uno spazio a Milano, dove affronteremo il grande problema del confine invisibile fra chi crea e chi fruisce della creazione cercando di abbatterne il limite di separazione.
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Una cosa senza la quale non potresti vivere.
La certezza di morire.
Una cosa che ti piacerebbe imparare.
Pulire i vetri così bene da renderli invisibili.
La colonna sonora di Scerbo: il silenzio o la musica?
La stessa nota ripetuta fino a quando non la sento più.
La tua cosa preferita.
Gli anemoni.
Se chiudi gli occhi ora, cosa vedi?
La scatola ancora vuota della domanda n. 2