Tra le ultime uscite delle edizioni Voland, un giallo che si muove tra i cunicoli dell’opposizione antisovietica e le quinte di un teatro d’avanguardia.
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_di Silvia Ferrannini
Leonardo Fredduzzi, classe 1976, vive a Roma e dal 2007 lavora presso l’Istituto di cultura e lingua russa. Attualmente cura le relazioni con vari partner culturali (università statali, centri d’insegnamento privati, fondazioni) in diverse città della Federazione Russa. Si occupa inoltre di comunicazione e programmazione di eventi in ambito culturale (musei, teatri, case editrici). La Venere di Taškent è il suo primo romanzo, affidato ai tipi di Voland, ed è un’altra forma di dedizione da parte di Fredduzzi alla Russia e alle sue mille anime.
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Ambientato nell’Unione Sovietica di Leonid Brežnev, attraverso l’indagine poliziesca La Venere di Taškent percorre le strettoie delle interrelazioni tra dittatura e dissenso sui fondali del Teatr Taganka, fucina di avanguardia artistica e di dissapori col regime sovietico. Quel teatro era stato un “antimondo”, una quinta nascosta (ma non troppo) rispetto all’ortodossa messinscena degli “uomini di paglia” del regime sovietico.
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Questa è storia vera, non invenzione: nel 1964 l’attore Yurij Ljubimov divenne il direttore del Taganka e lì studiava il teatro epico di Brecht. Michail Suslov, demone dell’intellighenzia antisovietica, adottava sotto il governo di Brežnev una politica ideologica agghiacciante, reprimendo le forme di espressione artistica “sgradite” ed esercitando un estenuante controllo delle forme di comunicazione di massa. Alla sua autorità sono legate espulsioni dalla Russia come quella di Aleksandr Solženicyn, giusto per citarne uno. Quando Ljubimov si allontanò in Gran Bretagna e fu privato della cittadinanza sovietica sia Brežnev che Suslov erano morti, ma le propaggini della loro dottrina continuavano a lasciare traccia.
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È sul solco di questa avventura/sventura culturale e artistica che Fredduzzi allestisce la sua narrazione, il cui punto di partenza è l’investigazione intorno all’omicidio di un’avvenente attrice uzbeka (di Taškent appunto), Anastasja Timokina. I sospettati sono tre, e tutti hanno avuto a che fare con lei in modi diversi. Ma il giallo s’insinua tra numerosi e coloratissimi dettagli che fanno pensare al fatto che, in fondo, Fredduzzi volesse raccontare soprattutto altro: una Russia recente, recentissima, che importava musica occidentale copiandola e incidendola su lastre radiografiche, le auto private in grigie ed enormi officine, strade debordanti di neve ripulite da ligie portinaie, locali notturni per i burocrati rossi. Gli occhi dell’autore seguono quelli del commissario Kovalenko, un uomo straordinariamente serio e leale, il quale prende a cuore la causa in nome sì della verità, ma anche per scongiurare lo spettro del fallimento che talora si affaccia nella sua vita (il rapporto fragile con la moglie, la mancanza di un figlio) e che egli non può permettere che se ne impossessi. La risoluzione del caso (non così sorprendente, in fin dei conti) è per Kovalenko la liberazione di un peso – il tirare un lungo e trattenuto sospiro.
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