Il 5 febbraio 2009 usciva per Playstation 3 Demon’s Souls, il capostipite della serie dei giochi cosiddetti soulslike dove al centro dell’azione si mette il mettersi la prova e la narrativa silenziosa.
–
_di Mattia Nesto
Lamenti e porte sbarrate, vergini di Norimberga contenenti corpi ormai straziati e martoriati da innumerevoli sofferenze, un cielo basso e nero come la pace e carcerieri che senza posa tormentano il malcapitato di turno. Ecco come ci si sentiva (ma ancora ci si sente) a percorrere la Torre di Latria, uno dei mondi più iconici di Demon’s Souls, il “primo” gioco di Hidetaka Miyazaki e del suo studio From Software (in realtà non è vero ma diciamo che DS è stato il primo gioco “di questo particolare genere” di cui parleremo diffusamente) apparso per la prima volta proprio dieci anni fa, il 5 febbraio 2009, per Playstation 3 (in Giappone).
Per quanto possa sembrare un piccolo punto di osservazione, quest’evento nella storia del gaming ha rappresentato tantissimo ed ha posto le basi per, letteralmente, fiumi e fiumi di inchiostro, virtuale o meno, consumati nei principali giornali e siti specializzati, per non parlare poi delle discussioni, approfondimenti e scambi di consigli che negli anni hanno animato forum, wiki e gruppi Facebook.
Perché l’assoluta potenza del messaggio di Demon’s Souls era data da due fattori fondamentali:
- La possibilità di condividere i mondi e le esperienze di gioco con un sistema di gioco cooperativo che, seppur minato dalla cronica debolezza dei server della From, aveva del rivoluzionario
- E, soprattutto, la morte come precipua esperienza di gioco.
Infatti contrariamente agli altri titoli che andavano per la maggiore in quegli anni (e che ancora al giorno nostro riscuotono grande successo e fanno da guida nel medium) in Demon’s Souls la morte non rappresentava “solo” una sconfitta del proprio personaggio ma diveniva anche e soprattutto strumento di studio e di acquisizione d’esperienza per affrontare al meglio le prossime battaglie.
Ma forse stiamo correndo troppo. Già perché per chi era appassionato del settore le prime immagini che circolavano delle ambientazioni di DS avevano lasciato a bocca aperta: il mondo di Boleteria, il regno dove giustappunto si svolgono le vicende di “Demonzu Souru”, si presentava infatti come oscuro e decadente, una terra che, seppur testimoniava ancora la sua grandezza e regalità, era ormai da molto tempo caduta in un circolo di corruzione e perdizione da cui, difficilmente, si sarebbe sollevata.
Ma se l’estetica da “dungeon crawler” di impostazione più o meno classica catturava l’attenzione, una volta che anche in Europa è diventato disponibile, a impressionare è stato anche e soprattutto il gameplay. Anzi proprio a stupire.
Già perché la From aveva deciso di tarare su un livello di difficoltà “base” piuttosto impegnativo: non si trattava semplicemente di videogiocare immersi in un mondo di gioco particolarmente ispirato ma di sopravvivere ad un reame pieno di insidie e di nemici terrificanti, che porteranno a mettere a dura prova i nostri riflessi e le nostri doti di gamer. Pad alla mano infatti la sensazione in DS era quella di essere davanti ad un cimento continuo, dove ogni piccolo avanzamento del proprio personaggio avveniva solo grazie ad un grande sforzo da parte nostra. Uno sforzo che, e qui sta proprio la grandezza dell’inventiva di Hidetaka Miyazaki, era da farsi non solo per “superare il livello” ma anche per decodificare il mondo e la lore del gioco, con quegli npc così misteriosi e inquietanti, che parlavano per enigmi e quell’indimenticabile hub centrale, il Nexus, il quale presentava una perfetta corrispondenza tra la solenne architettura e la sensazione di avere a che fare con un luogo pieno di segreti.
I segreti, esatto. Proprio questa patina di segreti era ed è ancora oggi quello che più attira nei giochi della From. Perché non c’è gioco della From (anche se il nuovo Sekiro: Shadows Die Twice magari ci potrebbe smentire!) senza una linea di dialogo segreta, senza un certo oggetto ottenibile solo se si compiono quelle ben determinate scelte (con tutto il conseguente dibattitto che si scatena nelle wiki, alimentando così il cooperativismo anche e soprattutto a livello mentale e di interpretazione dei segni). Perché la narrativa dei soulslike (ed ecco che qui torna il termine che sarà al centro della nostra ultima riflessione), così come il buon Sabaku no Maiku ama ripetere, è una “narrativa silenziosa”, che non ti sbatte mai in faccia la storia dei personaggi o del mondo ma che ti costringe a leggere bene le descrizione delle armi o degli oggetti oppure, ancora meglio, che ti porta a “collegare i puntini” ed a unire i possibili “vuoti di trama” (spesso e volentieri messi ad arte) con la propria carica intellettiva ed emozionale.
Ecco, questo sono i “soulslike”, ovvero titoli che coniugano alla perfezione, il proprio gameplay probante con una narrativa altrettanto sfidante per il giocatore di turno, in cui, nel più perfetto stile di gioco di ruolo, si può, letteralmente, creare il proprio personaggio da zero, interpretando il role-play nel modo che si vuole, anche per quanto riguarda lo stile di combattimento. Questo in realtà è vero, verissimo, soprattutto per Dark Souls, il titolo successivo a DS, dove si danno praticamente infinite possibilità di stili di gioco, dal “tank” che basa tutto sulla forza e poise/stabilità, al classico mago-incantatore sino al furetto scaltro e pieno di stamina, che veste di stracci ma che sguscia e evita ogni tipo di attacco per poi terminare l’avversario di turno azzeccando il tempismo giusto per il parry. Anche in Dark Souls 2 si danno tanti stili di combattimento diversi ma la narrativa e il contesto di gioco è meno riuscito (anche perché Miyazaki non ha partecipato al progetto) mentre in Bloodborne e Dark Souls 3 il gameplay predilige uno stile di gioco scattante piuttosto che uno “tank”.
Ora va detto che nel calderone dei soulslike vanno inseriti anche titoli non della From, dato che da DS in poi tante altre software-house sono state ispirate da questo stile, con risultati più o meno lusinghieri: da Lords of the Fallen a Salt&Sanctuary la lista è in costante aggiornamento. Ma l’inizio, questo sì, è stato con Demon’s Souls che, ancora oggi, affascina per quella sua unica patina di mistero (anche se ormai, con i server chiusi, la richiesta di un remake/remastered per PS4 o PS5 è sempre più forte nelle community), certe aree indimenticabili (la Torre di Latria, che cos’è la Torre di Latria!) e quelle sue boss-fight così probanti e ispirate (probabilmente Il Vecchio Monaco è una delle boss-fight più particolari di sempre della storia del medium videolidico https://www.youtube.com/watch?v=AmInBJ_vwBk ).
Morire è bello, insomma, con Demon’s Souls.