L’artista britannico per la sua prima apparizione in un’istituzione italiana costruisce un possibile scenario costellato di relitti urbani, in un’esposizione immersiva: eccedendo e ammassando, ma senza osare davvero.
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_di Alessio Moitre
Alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, nello spazio imponente del binario 1 le macerie ricoprono la pavimentazione. Sopra di esse macchine, furgoni, motociclette dai fari accesi, puntano in un unico senso di marcia, verso un enorme tabellone di legno vuoto. All’interno degli abitacoli non vi è nessuno. Rimangono invece visibili oggetti d’uso comune e
manufatti caratteristici dei possibili proprietari, adagiati perlopiù sui sedili. Ve n’è per ogni curiosità, un po’ da tutto il globo e la musica delle autoradio, in diretta, continua a far rimbalzare l’orecchio del visitatore. Un po’ da guardone con un tocco investigativo, si passa ad osservare dai finestrini, con lo scalpiccio sfrigolante dei cocci sotto ai piedi.
L’esperienza proposta dall’artista britannico Mike Nelson è ovviamente immersiva come per altro gli è già capitato di proporla. In un’intervista datata 2013, sul magazine Time Out, il nostro, fra le varie, sottolinea il suo istinto archeologico (frustrato, aggiunge) come natura di studio e di tendenza artistica. Il curatore Samuele Piazza richiama scenari anche cinematografici, di una certa filmografia catastrofistica dal gusto spiccatamente statunitense, aggiungo io. Ricorda senza dubbio ed il visitatore può trovarci ogni sua congettura o paranoia, in mezzo al cascame o tra gli oggetti. Le macchine, molte se non tutte targate Fiat (leggermente datate), ci conducono nel capoluogo piemontese: sarà avvenuto un attentato, un Ducato aperto o una scocca simile, ci fa supporre il peggio. Ma non si esclude nemmeno un cataclisma meteorologico, una disgrazia, una pazzia accidentale, un atto studiato o improvviso, una scelleratezza umana di qualche origine.
Rimaniamo noi, ignari del fatto compiuto e forse unici superstiti. L’arista ci fornisce dietrologie e congetture in abbondanza, in un’abbuffata d’istinti primordiali.
L’ha definirei questa un’esposizione furbacchiona, dove mi posso servire al buffet della contemporaneità senza mai sentirmi davvero sazio, in una ingorda voglia di rincorrere, quasi eccitato, i pensieri e strologare sull’accaduto. È di estrema comodità, sia per il creativo che per i curiosi, poter trovare arnesi e attrezzature atte alla semplificazione della visione, meglio ancora se fornite in partenza, velicando appena la suggestione che il complesso espositivo c’imprime.
Si possono costruire storie (sarebbe stato curioso affidare ogni veicolo ad uno scrittore, ne sarebbe nata una narrazione atemporale) interminabili ma se proprio vogliamo soffermarci sul lavoro, dobbiamo arrenderci all’ennesima sistemazione di oggetti d’uso comune al fine di crearne una scenografia accettabile della società, dove ci viene fornito, in un incartamento ammirevole, va detto, molteplici soluzioni, giochi ed incastri senza che però l’artista si sia espresso o abbia davvero osato.
Riprodurre, riproporre, portare allo sguardo, rendere visibile, non è più sufficiente, pare una rassegnata riproposizione di un tempo come il nostro, riempito di canali interpretativi, adeguandosi a non seguire una pista ma a mapparle tutte, in attesa che una stradina, una viuzza, una bialera, ci porti a destinazione. Pare una visione del presente ma infine si disviticchia in una normale, seppur diversa, fotografia di uno scenario. Una teatrale messa in scena, con oggetti di scena. Ormai temo, troppo poco.