Roma: la condizione femminile nei due mondi di Alfonso Cuarón

L’ultimo lavoro di Alfonso Cuarón è un’intima storia che mette in scena le ambiguità della classe medio borghese nel Messico degli anni ’70, raccontando il superamento delle difficoltà attraverso il riscatto.


_di Miriam Corona

Città del Messico, 1970. Un aereo sorvola il limpido cielo nel riflesso di un pavimento che qualcuno fuori dalla ripresa è intento a lavare. Ê la giovane Cleo, domestica intenta a svolgere i suoi compiti quotidiani all’interno del cortile della residenza di una famiglia medio borghese composta da Sofia, madre di quattro bambini, Antonio, il medico pater familias, Teresa, l’austera nonna, e Borras, il cane di famiglia. Il piccolo mondo creato da Alfonso Cuarón nel suo ultimo lavoro, Roma, vincitore del Leone d’Oro al 75° Festival del Cinema di Venezia e in lizza agli Oscar 2019 come miglior film in lingua straniera, è un ritratto intimo e nostalgico in bianco e nero, l’unico realizzato dal regista in Messico dopo Y Tu Mama Tambien.

Un bianco e nero che vuole anche indicare l’ambivalenza contradditoria dei falsi valori delle famiglie benestanti contrapposte a quelle modeste.

È chiaro fin da subito infatti che Cleo è dedita al suo lavoro, svolgendo le faccende più disparate che vanno dal rifare i letti, pulire la casa, occuparsi del cane ed essere anche un’importante figura di riferimento per i bambini della casa, gli unici che inizialmente sembrano manifestare riconoscimento del suo lavoro tramite gesta affettuose; nonostante questo, i rimproveri non tardano ad arrivare, come a ricordare la condizione alla quale è indotta. Ben presto apprendiamo che l’immagine patinata della famiglia agiata (continuamente contrapposta agli escrementi di cane in cortile, che per quanto spesso vengano eliminati si ritrovano insistentemente) nasconde un’instabilità che il regista ci suggerisce attraverso le conversazioni che sfuggono alla riservatezza che i coniugi cercano di mantenere tra le mura domestiche.

Fortunatamente, Cleo e la sua collega e coinquilina Adela hanno diritto a momenti di svago che non oltrepassano le proiezioni straniere al cinema locale, se non fosse per i giovani Ramon e Fermin, compagni delle due ragazze. Cleo e Fermin un pomeriggio decidono in via eccezionale di passare la giornata affittando una camera di hotel, dopo la quale Cleo realizza di essere incinta; preoccupata di essere licenziata, si confida con la padrona Sofia, la quale si scopre più che disponibile e comprensiva, nonostante nella stessa occasione riveli ai componenti della famiglia (Cleo compresa) che il marito Antonio rimarrà via a tempo indefinito in Canada per un convegno medico. Da questo momento cruciale in poi, le due donne si ritrovano sole nei rispettivi mondi: Cleo, abbandonata da Fermin dopo la notizia della gravidanza, e Sofia, che cerca a fatica di mantenere una facciata dignitosa nonostante la notizia che Antonio si trova in città insieme all’amante.

Entrambe cercano di restare a galla, sempre separate dalla condizione sociale: Cleo che da un lato continua a lavorare, nonostante lo stato interessante nel quale si trova, e dall’altro Sofia, che pone come priorità i figli e il loro svago, per non fargli gravare l’assenza del padre. Tramite le loro azioni, il muro invisibile che le separa comincia a sgretolarsi, rivelando che la loro vera condizione esistenziale non è dettata da ricchezza e povertà, bensì dall’essere donna in un mondo di uomini che se ne vanno, e non lasciare che questo le danneggi.

“Non importa quello che dicono, noi donne siamo sempre sole” asserisce una sera Sofia, tornando a casa ubriaca, a Cleo.

Dagli sfondi campestri della hacienda in cui trascorrono il capodanno 1971, rovinato improvvisamente da una serie di incendi boschivi, si arriva a un crescendo di tensione che sfocia nei violenti scontri delle proteste studentesche tra i manifestanti e la polizia, fino al momento in cui casualmente Cleo si ritrova faccia a faccia con Fermin che le punta una pistola contro, mentre dei suoi compari attuano un’esecuzione di un uomo a pochi metri di distanza all’interno del negozio in cui si trovano. Lo shock di quell’istante fa sì che le acqua di Cleo si rompano. L’esito della gravidanza, nonostante l’aiuto prezioso delle conoscenze di Sofia e Antonio all’interno dell’ospedale, non è positivo, come preannunciato da tetri presagi: durante la prima visita dal dottore, Cleo assiste a un terremoto mentre guarda i neonati attraverso la vetrata dell’ospedale e in un secondo momento, brindando alla salute del bambino per l’anno nuovo, viene urtata facendole cadere e rompere il bicchiere.

Dopo un sensibile quanto doloroso piano sequenza del parto di Cleo e della realizzazione della neonata senza vita, avvolta in un panno bianco dopo qualche breve momento con la madre, torniamo alla casa padronale. Sofia annuncia ai figli e a una sofferente Cleo che faranno una breve gita al mare, portandola con sé in vacanza per farla rimettere in sesto. Il viaggio al mare si rivela una conferma di liberazione delle due donne: arrivate a destinazione, vediamo Sofia, lucida come non mai, svelare ai figli che il padre se ne andrà via definitivamente e che il viaggio al mare è stato organizzato proprio perché potesse portarsi via le sue cose da casa; Cleo, dopo aver salvato due dei bambini dalle onde (nonostante non sapesse nuotare), ammette piangente nell’abbraccio affettuoso di Sofia e dei figli che in verità sperava che la bambina non nascesse mai.

Sofia e Cleo tornano infine a casa dalla nonna insieme ai bambini, felici e speranzose in un futuro seppur incerto. A concludere il film, mentre seguiamo con lo sguardo Cleo salire in terrazza per stendere i panni, vediamo un aereo sorvolare il cielo soleggiato del quartiere.

Le due ore di film tendono talvolta a scorrere lente, seppur impeccabili dal punto di vista della fotografia, che regala le nostalgiche immagini di un Messico tumultuoso, il cui delicato momento politico scorre sullo sfondo seppur slegato dalle vicende della storia.

In questo senso, l’intera narrazione, priva di colpi di scena culminanti, non riesce a stabilire un solido rapporto con lo spettatore: permane infatti durante tutta la visione un velo di distacco dato forse dall’eccessivo spessore del film che non crea il coinvolgimento emotivo sperato, nonostante le strabilianti abilità, a tratti maniacali, di Cuarón nella resa neorealista. Il vero messaggio del lungometraggio, dedicato a Libo, la tata del regista, riesce comunque ad avere presa sul pubblico. Le donne del film sono le vere eroine che riescono a riscattarsi nonostante la codardia e l’irresponsabilità degli uomini nelle loro vite, con trasparenza d’animo, determinazione e soprattutto prive di alcune stucchevoli dinamiche femministe odierne: ne esce fuori un ritratto della condizione femminile sincero ed efficace,  suggellato dalla speranza che accomuna i due destini delle protagoniste.